venerdì 24 luglio 2009

SPRINGSTEEN A UD - 2


dall’inviato

CARLO MUSCATELLO

UDINE «Mandi Udin!» urlato tre volte nel microfono. E poi il tradizionale, stentoreo: one, two, three, four... Sciabolate rock squarciano la calda, caldissima notte udinese. La folla sa che è solo l’inizio.

Sono appena passate le ventuno di ieri sera, le luci scendono lentamente sullo Stadio Friuli che è un catino bollente, oltre trentacinquemila giovani di anagrafe o di spirito arrivati da mezza Europa aspettano solo il cenno convenuto per esplodere, in quel rito catartico e liberatorio che è ogni concerto di Bruce Springsteen.

E quel cenno arriva puntuale, con il dito indice della mano destra che indica il cielo, con il saluto alla folla adorante, con il primo accordo di chitarra che avvia la danza rock e innesca l'esplosivo sotto quella meravigliosa macchina di musica che è ancora la vecchia E Street Band.

Lui, nerovestito, divisa da vecchio rocker, entra sulle note di una tarantella napoletana eseguita alla fisarmonica da Nils Lofgren, Roy Bittan e Charlie Giordano. Lo accoglie un boato affettuoso. Il saluto locale ripetuto tre volte, e poi sotto con il miglior rock che oggi passa il convento della musica contemporanea. Linguaggio semplice ma universale, vero e unico esperanto dei popoli.

Si parte alla grande con una ruggente ”Sherry darling”. Subito doppiata da ”Badlands”, con la folla che è già partita per la tangente. Il nostro canta di terre brutte, terre desolate, quelle della provincia che è uguale in ogni parte del mondo. Quelle della povera gente che non ce la fa a tirare avanti e ha diritto almeno alla speranza di un domani migliore, anche questa uguale in ogni parte del mondo. Il coro del Friuli è intonato come quello dell’Antoniano di Bologna (absit iniuria verbis). Il sax di Clarence Clemons fa il resto.

Non c’è soluzione di continuità, non c’è tempo per respirare né per ripensarci, parte un altro cavallo di battaglia che il popolo del Boss conosce a memoria: ”Hungry heart”, con le prime strofe affidate al coro dei trentacinquemila. Lui, Bruce, porge idealmente il microfono e ascolta compiaciuto. La notte promette bene assai. Ma del resto, quand’è che un concerto del nostro ha mai deluso qualcuno?

Il palco è maestoso ma tutto sommato semplice. Niente a che vedere con i gigantismi, con gli effetti speciali, con le trovate tecnologiche sempre più ardite che troppi usano solo per sviare l'attenzione da una sostanza che non c'è. Qui la sostanza c'è, eccome, e allora bastano un paio di passerelle e tre schermi giganti per avvicinare l'uomo di Freehold alla sua gente, al suo popolo. Ci sono quelli che anche prima dei sessant'anni che lui compie a settembre sono lì a raschiare tristemente il fondo del barile: un altro stanco tour, un'altra inutile raccolta giusto per fingere di esserci ancora, a costo di ridursi a patetiche caricature di se stessi.

Il Boss è di un'altra pasta, non per nulla è il numero uno. E questo "Working on a dream tour", la cui parte italiana si è conclusa ieri sera a Udine, dopo le tappe di Roma e Torino, lo conferma in uno stato assolutamente di grazia. Di più: ce lo propone quasi in uno stato di furore, di urgenza creativa e comunicativa che lo porta a fare cose che in altri tempi sarebbero state impensabili. Come eseguire alcuni brani a richiesta del pubblico, all'interno di una scaletta che cambia ogni sera e quasi trascura il nuovo album da cui il tour prende il titolo. Giusto due o tre brani, fra cui ”Outlaw Pete” e ovviamente la title track ”Working on a dream”, perchè non si dica che le esigenze dell'agonizzante discografia vengono trascurate. Poi, per tre ore buone, va a pescare episodi noti e meno noti di una carriera che attraversa quattro decenni. Infilando ogni tanto anche qualche cover che vale più di una dichiarazione di intenti, come una superba ”Summertime blues”.

Ma la notte, come si dice, è ancora giovane. La gente canta e balla sul prato come sulle gradinate. In tribuna vip c’è anche Zucchero. Il sudore scorre impietoso. Bruce canta, quasi invoca «Can you hear me... can you hear me...?». Mi puoi ascoltare, sei qui accanto a me questa sera, sei vicino a me, sei dalla mia stessa parte della barricata? La sua forza è la sincerità, unita a quel tocco di autobiografia che si cela quasi in ogni canzone. La sua è la poetica del rock come antidoto alla solitudine, persino alla disperazione che porta un ”Johnny 99” qualsiasi, d’America o d’Italia, a prendere un giorno un fucile e sparare.

«Abbiamo bisogno anche di rumore», dice Bruce in italiano, e il riferimento è ancora alle polemiche milanesi dell’anno scorso. Ma perchè ripensarci, se quella che va in scena è - finalmente - la vittoria del rock nella sua forma più vera, più nobile, più essenziale. E a guardarlo, a sentirlo, vien quasi da pensare che questo stato di grazia sia strettamente collegato alla nuova fase politica che sta vivendo la sua America, umiliata dagli otto anni di presidenza Bush, con le guerre, la crisi economica e tutto il resto, e oggi in attesa di quel rinascimento promesso da Barack Obama. Un rinascimento a stelle e strisce atteso da tutto il mondo, che sembra aver influenzato anche il nostro "working class hero", da sempre sensibile agli ideali di giustizia sociale, alle difficoltà della povera gente che è principale protagonista delle sue canzoni.

Sono le ventidue e trenta, siamo solo a metà del viaggio. Da ”Magic”, disco di due anni fa, arrivano le noti dolci, quasi leggere di ”Girls in their summer clothes”. Quell’album aveva i toni dell’amara riflessione sugli States, permeata quasi da un senso di tradimento. Ora sembra di respirare di nuovo la grinta dei tempi migliori, l’entusiasmo dei sogni, sotto l’egida di una rinnovata pulsione in perfetto stile «I have a dream». Che poi è l'origine del "Yes we can" obamiano: sì, noi possiamo farcela, innanzitutto a ripartire, per un mondo migliore, per la terra promessa che sognavano i nostri avi.

I trentacinquemila dello Stadio Friuli, sudati come Bruce e i suoi compari sul palco, sembrano crederci. E sanno che quella che hanno dinanzi agli occhi è la quintessenza del rock, della miglior musica popolare dell'ultimo mezzo secolo. Quarant’anni dopo Woodstock, dopo la fine dell’innocenza, oggi che tutto sembra e forse è plastica, soldi, interesse, immagine, raschiamenti del fondo del barile, quell’uomo sul palco ci insegna che è ancora possibile dire no, è possibile fare un’altra scelta, una scelta di dolore e di speranza. Perchè si può sempre ripartire, ricominciare.

Tocca a ”Promised land”, alla terra promessa, e forse non è un caso. ”Born to run” regala un momento di eccitazione collettiva di rara intensità. Baby, siamo nati per correre. E la cavalcata finale dei bis, aperti quasi a sorpresa da ”Born in the Usa”, classico di solito trascurato dal vivo, fa il resto.

Il popolo del Boss lo sa: non si può parlare di rock, forse non si può parlare nemmeno del nuovo sogno americano, se non si è mai visto un concerto di Bruce Springsteen. Una maratona di suoni ed emozioni che manda la gente a casa stanca ma felice. Almeno per una sera. Proprio com’è successo ieri a Udine.


 


 

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