domenica 23 gennaio 2011

ONDINA PETEANI

"E' bello vivere liberi". Sono state queste le ultime parole pronunciate da Ondina Peteani (1926-2003), la triestina diventata uno dei simboli della Resistenza. Otto anni dopo la sua scomparsa, quest’anno nel Giorno della Memoria - dunque fra pochi giorni, il 27 gennaio - viene pubblicato un libro che racconta la sua storia, la storia della prima staffetta partigiana d’Italia: ”Ondina Peteani - La lotta partigiana, la deportazione ad Auschwitz, l’impegno sociale: una vita per la libertà” (Mursia, pagg. 274, euro 17).

Firmano il volume la storica Anna Di Gianantonio e il figlio della donna, Gianni Peteani. Che dice: «Da bambino "stavo in braccio ad Auschwitz". Quante volte sono stato cullato da quel suo braccio con quel numero: 81672. Il lager era sempre in casa, da noi, come per tutti i familiari degli ex deportati. Una sorta di addomesticamento del male, quel numero maledetto a casa mescolava la minestra, stendeva i panni, sbrigava le faccende domestiche...».

Il libro - prefazioni di don Andrea Gallo e Liliana Segre, dedica al Presidente Napolitano che «con commozione e ammirazione ha letto la storia di mia madre», ma anche «agli oppressi, che non si sentono mai vittime» - si basa su testimonianze dirette e registrazioni sonore raccolte dagli autori.

Ondina era nata a Trieste il 26 aprile 1926. Giovanissima operaia ai cantieri navali di Monfalcone e attivista del Pci sin dal 1942, la sua vicenda attraversa gli anni del fascismo, conosce l’orrore dei campi di concentramento (Auschwitz, ma anche Ravensbrük, Eberswalde e poi di nuovo Ravensbrük), prosegue nel dopoguerra con il lavoro di ostetrica («per lei l’antitesi - ricorda il figlio - di una giovinezza di violenza e sofferenze. Con quel lavoro poteva ”dare la vita”, il massimo con quel suo lacerante passato»), l’impegno politico nel referendum fra monarchia e repubblica e nella battaglia per il voto alle donne, l’attività culturale.

Il lager rimase una presenza costante nella vita della donna. Che ricorda così il primo ingresso nel campo di sterminio: «Apprendemmo, in quei rapidi colloqui, l’abc della sopravvivenza: imparare subito il proprio numero in lingua tedesca e polacca; obbedire rapidamente agli ordini per non essere violentemente pestate; non bere assolutamente l’acqua del campo perché non era potabile. Infine ci dissero dell’esistenza dei forni crematori, del loro funzionamento, di cui era proibito parlare, dovevamo fingere di non sapere niente».

Parole pesanti come pietre. In una vita trascorsa a lottare contro tutte le ingiustizie, in un racconto senza retorica né sconti della ferocia umana. Un racconto che diventa l’estrema testimonianza di una donna al tempo stesso semplice e speciale, assurta con gli anni a simbolo di una generazione di donne che gli orrori della guerra avevano fatto crescere in fretta. Facendo loro pagare un prezzo altissimo per la loro libertà.

«Il suo insegnamento - ricorda il figlio, da anni mirabilmente impegnato nel tener vivo il ricordo della madre - è consistito principalmente nel sapersi opporre a un ordine moralmente inaccettabile. Della sua scelta mi parlava come di una sorta di impulso non fronteggiabile, di un’esigenza non contenibile, di una smisurata urgenza: un desiderio assoluto di libertà e giustizia. La traduzione di questa matrice si battezzò Resistenza».

La battaglia per la libertà della giovane Ondina cominciò un anno e mezzo prima dell’8 settembre 1943, grazie alla vicinanza del confine con la Jugoslavia. «Ho scoperto recentemente - spiega ancora Gianni - dove si trovava l’abitazione della sua famiglia: a Vermegliano, sotto l’attuale discesa dell’autostrada verso Redipuglia. A poche centinaia di metri si saliva verso quelle alture dove suo padre in divisa asburgica era stato colpito da una scheggia di granata perdendo la vista da un occhio».

Poi l’arresto, il viaggio verso il lager, la prigionia. Ancora il racconto del figlio: «Di Auschwitz mi disse, quand’ero più grande, qualcosa che ripensandoci è aberrante: una volta mia madre, uscita dal ”block”, nei labirinti delimitati dal filo spinato, si trovò a osservare ridendo con una sua compagna di sventura l’espressione quasi buffa di volti sfigurati tra le cataste di cadaveri. Voleva spiegarmi che soltanto con il superamento della soglia della decenza, della ripugnanza e della pietà si potesse sopravvivere in quel luogo dannato. Ricordi che riemersero nel suo ultimo anno di vita, fotogrammi di morte che la portavano a urlare di terrore notte e giorno».

Ma gli incubi non furono l’unica eredità del lager, per Ondina Peteani. Le altre si chiamavano anoressia, depressione, gravi malattie ai polmoni. E sterilità. «Lei che faceva venire al mondo bambini - ricorda con commozione Gianni - si accorse un giorno che non riusciva ad avere un bimbo suo. L’orrore di Auschwitz, il sudicio pantano infetto al quale era riuscita per miracolo a sopravvivere, l’avevano privata per sempre della possibilità di avere un figlio. Per questo, paradossalmente, in una somma arbitraria di sconcertanti orrori, devo ad Auschwitz l’incontro con lei che con mio padre mi salvò dall’orfanotrofio. Avevo otto mesi. Quel giorno la mia vita e la loro cambiarono per sempre».

Con la biografia di Ondina Peteani l’editore Mursia prosegue la pubblicazione, cominciata negli anni Sessanta, di memorie di sopravvissuti nei lager. Finora sono usciti oltre centoventi libri, tra cui ”Tu passerai per il camino” di Vincenzo Papalettera, ”Uomini ad Auschwitz” di Herman Langbein e ”Le cavie dei lager” di Luciano Sterpellone. Un’opera importante, che ora si arricchisce di un altro fondamentale capitolo. 

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