giovedì 20 gennaio 2011

VASCO BRONDI

Vasco Brondi è il cantore visionario e indignato della precarietà. La precarietà del lavoro, negli anni di Marchionne e Mirafiori, ma anche la precarietà dei sentimenti, nell’epoca delle coppie che si sfasciano prim’ancora di formarsi. Stasera il tour del ventiseienne cantautore ferrarese - che ha il vezzo di celarsi dietro il nome Le luci della centrale elettrica, e che a novembre ha pubblicato il secondo album, intitolato ”Per ora noi la chiameremo felicità” - fa tappa al New Age di Roncade, in provincia di Treviso. In attesa di rivederlo anche nel Friuli Venezia Giulia.

«C’era questa frase di Leo Ferrè - spiega Brondi, con riferimento al titolo del disco, arrivato due anni dopo ”Canzoni da spiaggia deturpata” - che mi aveva colpito molto. La disperazione è una forma superiore di critica, per ora noi la chiameremo felicità. Ecco, mi è sembrata perfetta come contenitore che dà un’atmosfera ulteriore al titolo».

La disperazione sullo stesso piano della felicità?

«Sì, la felicità è un concetto fuori dal mio stereotipo. Mi dicono che parlo solo di degrado, ma si tratta del mondo reale, quello che vedo, dove la gente vive e lavora».

Lei è una persona triste?

«Non direi. Non ho un approccio pessimistico nei confronti della vita. Per me sono tristi le persone, e le musiche, che sono allegre perchè fanno finta di niente. Attorno a me io vedo molta sofferenza».

E la mette nelle canzoni.

«Mi sembra il minimo. Parlo di lavoro nero, di licenziamenti, di respingimenti in mare, delle solite cose di questo nostro Paese. Non controllo mai quello che scrivo: quel che mi arriva da fuori, lo metto nelle canzoni».

Con che musica è cresciuto?

«Con il punk italiano degli anni Ottanta ma anche con le canzoni di De Gregori e De Andrè, cantautori che tenevo nascosti ai miei amici, molto più ”musicalmente estremisti”. Le mie canzoni nascono da un cortocircuito fra queste anime».

Ma lei cita spesso anche Pasolini, Claudio Lolli, Pier Vittorio Tondelli...

«Sono state le letture che ho incontrato nel corso della mia crescita. Le loro tracce sono arrivate fino ai giorni nostri. E rimango convinto del fatto che quel che incontri a quindici o sedici anni ti stravolge e te lo porti dietro per tutta la vita».

Perchè Le luci della centrale elettrica?

«Perchè quand’eravamo ragazzi, io e i miei amici a Ferrara, la sera andavamo spesso a vedere i fumi e le luci del polo chimico della nostra città che salivano verso il cielo. Diciamo che era l’unica attrazione disponibile, ci accontentavamo davvero di poco...».

Voglia di non apparire?

«Beh, sì: c’è anche quella. Credo che il mio nome non sia importante, soffro la celebrazione del personaggio che è parte integrante del mondo musicale. Odio l’attenzione da Grande fratello alla persona. Non voglio essere un’autobiografia ambulante. Meglio le canzoni, le storie. E poi...».

Dica.

E poi mi piace pensare di non essere indispensabile al progetto delle ”Luci”. Siamo un collettivo, un gruppo aperto. Io prendo i discorsi e le situazioni che mi stanno attorno e le trasformo in canzoni».

E invece l’hanno eletta cantore di una generazione.

«Ma io non mi sento tale. Quando dico ”noi” mi riferisco a noi del gruppo, nulla di più. Io racconto la vita normale delle persone che ho attorno. L’anagrafe non basta, non accomuna». 

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