domenica 27 novembre 2011

HARRISON 10


Domani sono dieci anni che se n’è andato George Harrison. E fra dieci giorni ne saranno passati trentuno da quando il folle Chapman uccise John Lennon. Ma la notizia - come dimostra anche il successo di Paul McCartney l’altra sera a Bologna, vedi nota qui a destra - è che nel mondo c’è ancora tantissima voglia di Beatles. Ovvero delle canzoni lasciateci in eredità dalla più bella avventura musicale della seconda metà del Novecento. Quattro ragazzi che sono stati in grado di cambiare musica, ma anche cultura e costume dell’ultimo mezzo secolo.

Dei quattro, George era il più giovane e forse il più defilato. Nato il 25 febbraio del '43, figlio della “working class” di Liverpool, ha solo quindici anni quando, nel ’58, si unisce a John e Paul nei Quarrymen. Nonostante l’età, è già un abile chitarrista.

Si trova in mezzo al mito quasi senza accorgersene. Da quelli che poi sarebbero diventati i Beatles, viene considerato una sorta di fratello minore. Lo chiamano “the quiet Beatle”, o anche “the sad Beatle” (il Beatle tranquillo, o triste), non può competere con il carisma e il genio dei due leader. Ma studia. E ha un suo talento, che lo porta negli anni a comporre alcune tra le più importanti canzoni del gruppo. Come “Something”, che assieme a “Yesterday” (firmata al solito Lennon-McCartney ma scritta dal solo Paul) è il loro brano più reinterpretato.

I suoi fraseggi alla chitarra solista diventano un tratto essenziale della casa. E la sua passione per il sitar caratterizzerà un classico come “Norwegian wood”. Ma il culto per l’India - che contagerà anche John e Paul - non si limita agli strumenti: già dal '65 s'immerge nella lettura nei sacri testi indiani. E poi, in piena era psichedelica, coinvolge i suoi tre compagni e li porta in India in cerca di nuove emozioni.

Dopo lo scioglimento del gruppo nel '70, continua a sfornare titoli di successo. Il più celebre è “My sweet lord”, per il quale viene però condannato per plagio (era uguale a “She's so fine”, successo delle Chiffons del '64). Nel '71 organizza gli storici concerti di beneficenza per aiutare le popolazioni del Bangladesh - antesignani dei vari Live Aid - che diventeranno anche un album di grande successo. Poi alterna momenti di silenzio ad album di buona fattura (vedi “Dark horse”).

Due anni prima di morire a Los Angeles, rischia di fare la stessa fine di Lennon: un ex tossico entra nella sua villa-fortezza inglese, vibrandogli una coltellata al torace. Se la cava. Con il cancro contro cui combatteva da anni, invece, non c’è nulla da fare.

Nel decennale della scomparsa, Martin Scorsese gli ha dedicato il film documentario “Living in the material world”, presentato l’altra sera al Torino Film Festival. Un modo per dire: George, ci manchi.

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