martedì 13 novembre 2012

LUCIANA CASTELLINA presenta a trieste il libro SIBERIANA

«Sul Lago Baikal, nella Siberia meridionale, un luogo splendido dove però d’inverno ci sono quaranta gradi sotto zero, su un traghetto a un certo punto sento parlare italiano. E non era nessuno dei miei compagni d’avventura. Parlo con queste persone e scopro che fra il 1870 e i primi del Novecento settecento lavoratori friulani erano arrivati fin lassù, soprattutto da Clauzetto, per lavorare alla costruzione della Transiberiana. Tanti erano morti, e molte tombe e lapidi con nomi italiani sono lì a testimoniarlo. Altri tornarono a casa. Ma alcuni rimasero lì, e i loro discendenti parlano ancora nella nostra lingua». È l’episodio forse più particolare raccontato da Luciana Castellina nel suo nuovo libro “Siberiana”, che presenta oggi a Trieste. Il diario di un viaggio sospeso tra passato e presente, sulla Transiberiana, sulla linea ferroviaria più lunga del mondo, da Mosca al mar del Giappone, un viaggio durato tre settimane nel settembre 2011. Giornalista e scrittrice, Castellina è stata un pezzo importante della sinistra italiana. Prima nel Pci, dal quale fu radiata nel ’69 assieme al gruppo che diede poi vita al Manifesto, poi nel Pdup, in Democrazione proletaria, in Rifondazione comunista. Un impegno politico di lungo corso, che l’ha portata per tre legislature nel Parlamento italiano e quattro in quello europeo. «Il Salone del libro di Mosca - spiega - ha ogni anno un Paese ospite d’onore. L’anno scorso toccava all’Italia. Dunque siamo stati invitati una decina di scrittori e giornalisti, per prender parte alla spedizione “Transiberiana Italia-Russia”. Ci aspettava un viaggio di seimila chilometri attraverso cinque fusi orari». Partenza ovviamente da Mosca. «Che è diversa dalla Russia alla stessa maniera in cui New York non somiglia agli Stati Uniti. Comunque da Mosca siamo appena passati, giusto il tempo di visitare il Salone del libro. Poi dritti alla stazione, dove siamo sistemati su un vagone speciale della Transiberiana, attrezzato per il nostro lungo viaggio. Tante tappe, in ogni città ci fermavamo due giorni, poi la seconda sera tornavamo su quella che era diventata la nostra piccola casa per tre settimane». Fra voi si era creato un buon clima? «Sì, siamo stati fortunati, andavamo d’accordo, ci eravamo simpatici. Cosa fondamentale, visto il tanto tempo che abbiamo dovuto passare assieme. Tenga conto che dormivamo nelle cuccette, che spesso i pasti venivano serviti a bordo. Ma è stato divertente, eravamo un’allegra brigata. La sera facevamo delle piccole festicciole, c’era quasi un clima da gita scolastica». È stato un viaggio anche nel suo passato? «Diciamo che per me è stata l’occasione innanzitutto per ripensare al fatto che a questo grande paese, che nel bene e nel male ha occupato per tanti anni la nostra immaginazione e quella di almeno un altro paio di generazioni, ormai non pensa quasi più nessuno. È come se non esistesse». E invece? «E invece esiste ancora, rimane il più grande paese del mondo ed è anche molto bello. Uno dice Siberia e pensa ai gulag, e invece si tratta di una regione con paesaggi meravigliosi. Un paese di poeti e di viaggiatori, di prigioneri e di gangster. Una sorta di far west ancora tutto da scoprire, soprattutto per noi occidentali». Con paesaggi diversi. «E meravigliosi, mai monotoni. Centinaia di chilometri di boschi di abeti, di faggi, di betulle, senza mai incontrare una casa. Una vera rivincita della natura sul mondo cosiddetto civilizzato». La sua prima volta in Russia? «Era il ’57, per il Festival della gioventù a Mosca. Ne ho un ricordo bello ma illusorio. C’era ancora Kruscev. Città grigia, austera, poche luci e nessun cartellone pubblicitario per le strade. Ricordo che il ballo fu organizzato dentro le mura del Cremlino. La delegazione italiana portò la Roma Jazz Band. Credo sia stata la prima esibizione di un gruppo jazz al Cremlino». La sua penultima volta? «Autunno ’93, ai tempi di Eltsin e del parlamento bombardato. Mosca era già radicalmente trasformata, non era più l’austera capitale sovietica, i negozi erano pieni di beni di consumo, nelle strade c’erano tante luci, tanti cartelloni pubblicitari. La transizione dal socialismo al capitalismo in quei mesi era segnata da un drammatico caos». Lei quando cambiò idea, sulla Russia e sul comunismo sovietico? «Nel ’69, dopo Praga, quando con il gruppo che avrebbe dato vita al Manifesto comprendemmo che si trattava di un regime ormai non più riformabile. I nostri vecchi compagni del Pci lo capirono con qualche anno di ritardo». Putin? «Il suo è ancora un regime, dai pesanti aspetti illiberali. Il cambiamento è stato vissuto dai russi come una speranza di liberazione che però è stata decisamente tradita. Il passaggio dal comunismo al capitalismo selvaggio è caratterizzato da aspetti di grande durezza. Molti si sentono imbrogliati». Il viaggio è stato per lei anche una piccola evasione dall’Italia del settembre 2011? «Assolutamente. Non dimentichiamo che a Palazzo Chigi c’era ancora un certo Berlusconi, che la nostra immagine nel mondo era duramente compromessa. Pochi mesi prima, a New York, al controllo dei passaporti, la battuta ammiccante sul bunga bunga era immancabile. Di buono, nel nostro lungo viaggio sulla Transiberiana, c’è stato anche che nessuno faceva riferimenti per noi imbarazzanti quando capivano che eravamo italiani...». La prima presentazione del libro la fa nella “sua” Trieste. «È vero, a Roma lo presentiamo solo due giorni dopo. Ed è vero che con Trieste ho un legame particolare. Di qui era un mio nonno materno, di cognome faceva Liebman. Non ho mai vissuto nella vostra città, eppure quando ritorno mi sento stranamente a casa. Un fatto di odori, di cucina, di cultura. Il mio legame con quel ramo della mia famiglia è sempre stato fortissimo». Nel gruppo del Manifesto, oltre a lei, c’era un altro pezzetto di queste terre. «È vero, Rossana Rossanda è nata a Pola e da ragazza ha vissuto a Trieste. Sì, possiamo dire che quarant’anni fa al Manifesto c’era anche un pezzetto di Nordest...».

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