sabato 3 novembre 2012

MARCO CAVALLO, LE GRAND CHEVAL BLEU...

Marco Cavallo ora parla anche francese. Da tempo il vecchio ronzino che nel manicomio di San Giovanni, nei primi anni Settanta, trascinava un carretto pieno di lenzuola miseramente sporche è diventato il simbolo della psichiatria dal volto umano. Anche e soprattutto grazie alla copia in cartapesta che degenti, medici, infermieri e volontari costruirono e portarono in giro per la città, un giorno del 1973. Quel cavallo, quel simbolo, quella storia hanno ispirato “Le grand cheval bleu”, libro per ragazzi scritto da Irène Cohen-Janca, che dopo la pubblicazione in Francia esce adesso anche in Italia. Titolo: “Il grande cavallo blu”, illustrazioni di Maurizio A.C. Quarello, edizioni Orecchio Acerbo. Il libro racconta la storia di Paolo, l’unico bambino del manicomio di San Giovanni, dove vive perchè sua madre fa la lavandaia. Il suo amico del cuore è ovviamente Marco, il vecchio cavallo. Paolo trascorre le sue giornate chiuso tra le cancellate dell’ospedale, in mezzo a personaggi come l’uomo-trottola, la donna scalza, l’uomo-albero... Finchè un giorno arriva un nuovo medico, “matto come un cavallo e ostinato come il vento”, che decide di abbattere quelle cancellate. «Da parecchio tempo - racconta l’autrice - ero a conoscenza della storia di Franco Basaglia e della chiusura degli ospedali psichiatrici. Poi mi è capitato di lavorare in una città dove c’era un grande ospedale psichiatrico, un immenso comprensorio con numerose attrezzature. Come quello di Trieste: una vera città nella città. Questo ospedale possedeva una magnifica biblioteca dove sono andata alcune volte, e così ho avuto l’opportunità di frequentare questo universo. Inoltre, in quegli anni nell’ospedale si svolgevano varie iniziative che permettevano ai malati di uscire dall’ospedale e di mescolarsi con la popolazione. Com’era avvenuto tanti anni prima proprio a Trieste». Come ha conosciuto la storia di Marco Cavallo? «Per caso. Una trasmissione radiofonica era dedicata al vecchio cavallo di fatica e a questo cavallo azzurro, costruito dentro le mura dell’ospedale. Il cavallo azzurro rappresentava il suo destino di bestia da soma, ma anche quello dei malati. Era diventato un simbolo di tutte le lotte dedicate a considerare con umanità e rispetto ogni creatura». Cosa l’ha colpita al punto di scriverne? «Innanzitutto la vera rivoluzione che l’esperienza triestina ha provocato nel nostro rapporto con la malattia mentale, ma anche con tutto ciò che esce dalla norma. Non sottovaluto le difficoltà per le famiglie, per quelli che non erano pronti ad accogliere questi malati, per il pretesto, giustificato anche da ragioni di risparmio, che ha fatto sì che in molti luoghi ciò sia avvenuto senza che altre strutture fossero create per accompagnare chi usciva dal manicomio. Ma in questo movimento c’è un desiderio talmente possente di considerare l’altro nella sua umanità, di ridargli un nome, che tutto ciò mi ha dato una vivissima voglia di scrivere». Perchè un libro per ragazzi? «Scrivo molto per l’infanzia, credo che ai bambini si possa parlare di tutto, in un certo modo, ma di tutto. È nell’infanzia che si forgiano molte concezioni del mondo, bisogna quindi veramente affrontare tutto, compresa la follia. Ho creato il personaggio del giovane narratore affinché i piccoli lettori possano entrare in questa storia più facilmente. Inoltre, questo bambino è il solo bambino dell’ospedale, fatto che lo induce a una certa solitudine, paragonabile sotto certi aspetti a quella dei malati, che comunicano difficilmente con gli altri». Conosce Trieste? Qualche protagonista di quell’esperienza? «Sono stata in Italia moltissimo tempo fa, ma non ancora a Trieste. E credo che adesso sia proprio necessario che io venga, per camminare sulle tracce di Basaglia, ma anche di Saba e Svevo. A Cagliari ho invece conosciuto lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, che ha partecipato direttamente a questa avventura. Per me è stato estremamente emozionante: gli incontri che abbiamo fatto con i bambini avrebbero tolto qualsiasi dubbio, se dubbio vi era sul parlare ai bambini della malattia mentale». Irène Cohen-Janca è nata in Tunisia, «brutalmente lasciata - come dice lei - all’età di sette anni». Arrivata in Francia con la famiglia, ha abitato a Parigi e nella regione parigina. All’università ha studiato lettere, diventando “bibliotecario conservatore”. «Scrivo - riflette - forse perchè ho vissuto tutta la mia vita in mezzo ai libri...».

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