lunedì 18 maggio 2015

SULL'ABOLIZIONE DEL CARCERE...

Chi ruba miliardi spesso la fa franca, ma per chi ruba una mela, ahinoi, non c’è scampo. Vecchia e disincantata saggezza popolare, che potrebbe finire in soffitta, almeno nella seconda parte dell’assunto. Grazie a una nuova norma, che comincia a essere applicata nelle aule dei nostri tribunali. Pochi giorni fa una donna, denunciata per il furto di un paio di ciabatte del valore di 12 euro, è stata infatti assolta a Trieste grazie all’applicazione di un nuovo istituto giuridico: la non punibilità per particolare tenuità dell’offesa. Con il Decreto Legislativo 16 marzo 2015, n. 28, “Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto”, è stato introdotto l’articolo 131 bis del codice penale. La norma, che ha lo scopo di alleggerire il carico di lavoro dei tribunali, sembra anche ispirata a una logica di buon senso, introduce di fatto una depenalizzazione. E riguarda i reati puniti con pena detentiva non superiore a cinque anni o con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla pena detentiva. La novità si applica a tutte le contravvenzioni e a molti delitti. Tra questi: violenza privata, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, minaccia aggravata, alcuni delitti contro l’inviolabilità del domicilio e numerosi reati contro il patrimonio (furto semplice, danneggiamento, truffa, appropriazione indebita...). Condizioni per l’applicazione della nuova norma: essere in presenza di un reato che provoca un’offesa di particolare tenuità e il fatto che il comportamento del reo dev’essere non abituale. Ma la fattispecie citata potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova stagione giuridica. All’insegna dell’abolizione del carcere. Potrebbe sembrare una provocazione. Ma si ricordi che anche quando, proprio da Trieste e Gorizia, Franco Basaglia lanciò la sua battaglia per la chiusura dei manicomi, sfociata nel 1978 nella legge 180, nota come “legge Basaglia”, beh, anche quella all’inizio sembrò a molti una provocazione. In questi giorni è arrivato nelle librerie un saggio che analizza questi temi: “Abolire il carcere - Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini” (pagg. 121, euro 12, edizioni Chiarelettere), che comprende i contributi di Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta. Partiamo da alcuni dati. In Francia e in Inghilterra soltanto il 24% dei condannati va in carcere, in Italia siamo ancora all’82%. Ma perchè i paesi europei più avanzati stanno drasticamente riducendo l’area della carcerazione? Non certo per lassismo, o per un permissivismo quanto mai fuori luogo. La carcerazione va ridotta ai casi strettamente necessari, e in ultima analisi bisogna andare verso l’abolizione delle carceri, per il semplice e comprovato motivo che queste ultime servono soltanto a riprodurre crimini e criminali. E inoltre tradiscono i principi fondamentali della nostra Costituzione. Che all’articolo 27, dopo aver ricordato che “la responsabilità penale è personale”, che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”, e prima di aver confermato che “non è ammessa la pena di morte”, nel terzo comma recita “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducazione, sì. Le nostre prigioni, al di là dei serissimi problemi dovuti al sovraffollamento, sono delle vere e proprie università del crimine. Nelle quali chi ruba in un supermercato finora divide la cella con chi ha commesso crimini efferati. Poi, quando si esce, spesso ci si ricasca. La percentuale di recidiva è infatti altissima. Le statistiche dimostrano che chi ha scontato la pena in carcere torna a delinquere nel 68% dei casi. E con una frequenza maggiore rispetto a chi invece abbia beneficiato di misure alternative o comunque di sanzioni diverse dalla reclusione. Nel saggio si sostiene che la detenzione in strutture spesso fatiscenti e quasi sempre sovraffollate deve essere dunque abolita. E sostituita possibilmente da misure alternative più adeguate, efficaci e tutto sommato anche più economiche. Gli autori sono consapevoli del fatto che in questa partita di confrontano due esigenze diverse, ma solo apparentemente opposte: da un lato quella di soddisfare la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori dei reati più gravi (che fra l’altro sono soltanto una piccola percentuale del popolo dei detenuti), dall’altro il diritto del condannato al reinserimento sociale al termine della pena. Attualmente disatteso. «Perché - si domanda nel libro Luigi Manconi, sociologo, parlamentare Pd, presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato - fare a meno del carcere? Semplice: perché a dispetto delle sue promesse non dissuade nessuno dal compiere delitti, rieduca molto raramente e assai più spesso riproduce all’infinito crimini e criminali, e rovina vite in bilico tra marginalità sociale e illegalità, perdendole definitivamente». Ancora Manconi: «Il carcere va abolito pure perché mette frequentemente a rischio la vita dei condannati, violando il primo degli obblighi morali di una comunità civile, che e quello di riconoscere la natura sacra della vita umana anche in chi abbia commesso dei reati, anche in chi a quella vita umana abbia recato intollerabili offese. E sia per questo sottoposto alla custodia e alla funzione punitiva degli apparati statali. Sono passati più di trent’anni da quando, prudentemente, si cercava una strada per liberarsi dalla necessità del carcere». Avverte Gustavo Zagrebelsky nella postfazione del libro: «La Costituzione non identifica la pena con il carcere, anche se le “restrizioni alla libertà personale” e la “carcerazione preventiva” dell’articolo 13 mostrano che, sullo sfondo, stava anche allora l’idea che la società non possa esistere senza appoggiarsi al carcere. Ma la pena carceraria non è certamente un istituto “costituzionalmente necessario”, né, per così dire, la “prima scelta” in materia di pene. È una possibilità giuridica alla quale si può attingere per necessità». Oppure fare una scelta diversa. Una scelta di civiltà.

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