mercoledì 24 giugno 2015

LA RIVOLUZIONE BASAGLIANA NEL LIBRO DI ROTELLI

Una storia di “matti” e “sani”, di donne e uomini, di giovani e anziani, di psichiatri e infermieri e volontari. Una storia di povera gente, di dolore e sofferenza, ma anche di riconquistata libertà, di coraggio e ottimismo, di felicità e voglia di vivere. E in fondo di cambiare il mondo. Questo e tanto altro è stata, è tuttora la grande rivoluzione basagliana. Fiumi di parole (troppe?) sono state dette e scritte. Mancava forse un compendio, una summa antologica di quaranta e più anni che hanno cambiato di certo la psichiatria ma forse anche il mondo, il nostro mondo, di noi che viviamo a Trieste, ma non solo, perchè stiamo parlando di una storia che ha valicato le frontiere e gli oceani. Quel compendio, quella ricca antologia ora c’è. L’ha curata Franco Rotelli, considerato uno dei due eredi di Franco Basaglia (l’altro è Peppe Dell’Acqua, che dirige la collana nella quale esce il volume). Titolo: “L’istituzione inventata / Almanacco Trieste 1971-2010” (2015, pagg. 328, euro 29, Collana 180 Archivio critico della salute mentale, Edizioni Alphabeta Verlag). Il libro verrà presentato domani a Trieste, al Museo Revoltella. «Abbiamo sentito l’esigenza di mettere ordine in un lavoro così lungo e complesso - spiega Rotelli, classe 1942, nato a Casalmaggiore, provincia di Cremona ma più vicina a Parma - per due motivi. Innanzitutto perchè la comunicazione su questi fatti in tutti questi anni non ha dato conto della partecipazione di tante persone. Alla trasformazione della psichiatria ha partecipato un’enorme quantità di soggetti, è stata un’autentica impresa collettiva che abbiamo voluto documentare con testi, foto, materiali vari». Secondo motivo? «Abbiamo ritenuto opportuno rivolgerci ai più giovani, a quelli che non c’erano, che non sanno nulla di questa vicenda. Il racconto, la trasmissione della conoscenza ai giovani è sempre un dovere». Perchè si sappia che cosa? «Che tutta questa vicenda non si limita alla chiusura dei manicomi e alla legge 180. È stata una storia complessa, che riguarda la trasformazione del fare sanità, un discorso di democrazia, una scuola di libertà. Libertà terapeutica non era soltanto un motto». Cosa rimane di quel manicomio di quarant’anni fa? «A San Giovanni allora c’erano 1200 “matti”. Oggi abitano ancora in una casetta poche persone che hanno bisogno di rimanere lì anche perchè probabilmente non hanno un posto dove andare. Sono assistite, ma si muovono liberamente». Il resto del grande parco? «Ospita sette padiglioni universitari, la sede di un distretto sanitario, la direzione dell’Azienda sanitaria triestina, una scuola slovena, un bar/ristorante, fino a qualche tempo fa c’era un asilo. E l’università ha ancora vari progetti, fra cui quello di trasferirvi la facoltà di psicologia». Un parco restituito alla città? «Sì, anche se ci sono ancora vari edifici da restaurare e utilizzare. Nei giorni scorsi si è svolta una nuova edizione di Bioest, sta partendo un centro estivo per bambini, potrei continuare». Cosa ricorda della sua prima volta a San Giovanni? «Era il novembre del ’71, arrivavo da Parma, con Basaglia. Mi colpì la bellezza del parco, c’erano trenta giardinieri, dipendenti della Provincia, che lo curavano. Ma i padiglioni erano chiusi, e la gente chiusa dentro. Gli uomini da una parte, le donne dall’altra. Era stato costruito per seicento persone, ce n’erano il doppio. In mezzo c’era stato l’esodo dall’Istria, i più deboli erano finiti là dentro». Il primo incontro con Basaglia? «Nel ’69 lavoravo al manicomio giudiziario di Castiglione dello Stiviere, vicino Colorno, provincia di Parma. Quando Basaglia venne a dirigere il manicomio di Colorno, andai a presentarmi. Ebbi la fortuna che la sera prima era stato trasmesso in tivù un servizio sul lavoro che stavamo facendo a Castiglione dello Stiviere: appena mi vide mi riconobbe e mi chiese di andare a lavorare con lui». Nel libro lo associa a “Rossellini, Visconti, De Sica”... «E allo Statuto dei lavoratori, alla Costituzione, cioè a persone e leggi che hanno fatto grande e bello questo Paese. All’estero ti parlano di loro e di quelle leggi di civiltà e progresso. Persone e norme che sono riconosciute come la parte più bella d’Italia. Basaglia è fra questi, ed è bello che il consiglio comunale di Trieste abbia appena approvato all’unanimità la proposta di intitolargli una via». Quarant’anni fa non c’era unanimità. «Anzi. Una parte della città e il “Piccolo” non ci aiutarono. L’accoglienza non fu buona anche da una parte della sinistra. Diciamo che ci fu una divisione trasversale, se è vero che Basaglia fu chiamato a Trieste da un dc illuminato come Michele Zanetti». In un’altra città sarebbe andata meglio? «Chi può dirlo. In giro c’era voglia di cambiamento. Qui tutto sommato è andata bene perchè la città ha un’anima conservatrice ma anche una grande cultura, un grande rispetto per la libertà individuale. Altrove forse ci sarebbero state meno tensioni ma il processo sarebbe stato più lento». All’estero hanno accolto meglio il vostro lavoro. «Ovunque c’è fame di diritti, di libertà. Il nostro era un lavoro di avanguardia, che è stato accolto positivamente dalle avanguardie. E Trieste è diventata nel nostro settore punto riferimento in tutto il mondo». Ma lei scrive che “il lavoro è appena cominciato”. «Perchè le psichiatrie non sono molto cambiate, in Italia e all’estero. Alla base c’è una cultura ancora escludente, che tratta le persone dall’alto in basso, giocata sulla malattia, sulla diagnosi più che sulla cura. Una cultura ancora dominante nell’insegnamento universitario e nella pratica. Di manicomi, insomma, ce ne sono ancora quasi dappertutto. Pensi che nel solo Giappone ci sono 300mila ricoverati nei manicomi». C'è un “filo rosso” che unisce la rivoluzione basagliana a quel bonus antipovertà per il quale è impegnato in Regione? «Certo - conclude Rotelli, dal 2013 consigliere pd alla Regione Friuli Venezia Giulia, dove presiede la Commissione sanità e politiche sociali -, tutto fa parte dello stesso bagaglio politico e culturale. Ci siamo sempre occupati dei diritti delle persone più deboli. Vale per la psichiatria, per la sanità, per le condizioni sociali delle persone. In fondo faccio sempre lo stesso mestiere...».

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