giovedì 23 giugno 2011

INTERVISTA ENRICO RAVA


Tornare nella Trieste natìa? Chissà... Dopo aver girato il mondo con il jazz: dall’Argentina alla Cina, dal Brasile alla Malesia, dagli Stati Uniti (a New York, fra una cosa e l’altra, ha vissuto dieci anni) all’India. Senza dimenticare ovviamente l’Europa: Londra, Parigi, Berlino, praticamente tutte le capitali continentali. Esibendo sempre quel passaporto con scritto “nato a Trieste, il 20 agosto 1939”.

Enrico Rava ha suonato con tutti i grandi. Ed è forse il jazzista italiano più noto nel mondo, anche se in Italia il pubblico cresciuto a pane e televisione lo conosce più per l’imitazione che ne ha fatto Fiorello (che ha inventato il personaggio di Paolo Fava, trombettista jazz dai lunghi capelli bianchi, imitando proprio lui...) che per la sua musica. Ha appena pubblicato il libro “La storia del mio jazz” (Feltrinelli, pagg. 254, euro 16): praticamente il romanzo della sua vita e della sua grande carriera.

«A Trieste - racconta l’artista - ho vissuto solo i primi tre anni. L’ultima volta che ci sono venuto è stato l’anno scorso, sulla strada per andare a Vienna a ricevere il premio come miglior jazzista europeo. Con mia moglie ci siamo fermati tre giorni, in quel bell’albergo che dà su piazza Unità. Sono stato davvero bene, nella “mia” città, che trovo sempre bellissima e straordinaria»

Sempre uguale, scrive nel libro.

«Sì, ma per me è un dato positivo, è un bene. In queste cose io sono conservatore. Tento di farlo anche nella musica: guardare al domani con le radici ben salde nel passato».

Si ricorda la prima volta che è tornato a Trieste?

«Certo. Avevo ventidue anni, andavo a suonare al festival di Bled. Sono andato in via Tor San Piero, vicino alla stazione, a cercare la casa dove vivevamo. Non sapevo il numero, quindi sono entrato in vari portoni, finchè non ho riconosciuto il cortile. Ne avevo un ricordo molto vivido, nonostante avessi solo tre anni quando la mia famiglia si trasferì a Torino».

Dove non c’è il mare.

«Sì, il mare è un altro ricordo. Con mia madre e mio fratello più grande d’estate ci andavamo tutti i giorni: uscivamo da casa, passavamo sotto un ponte, e andavamo a piedi fino a Barcola. Ricordo la fila di scogli davanti alla spiaggia. Allora si camminava molto, o si andava in bicicletta».

La musica la scoprì attraverso sua madre pianista?

«Quello fu il primo contatto. Ma l’innamoramento vero arrivò con i dischi di mio fratello: i miei idoli erano i trombettisti Bix Beiderbecke, Louis Armstrong e più tardi Miles Davis, che poi vidi in concerto a Torino nel ’57. Avevo diciotto anni e dopo averlo visto feci la mia scelta».

Scelta osteggiata da suo padre.

«Come tutti i genitori, quello della musica, e del jazz in particolare, a lui che era stato legionario fiumano sembrava un mestiere da evitare. A scuola andavo malissimo, dunque cominciai a lavorare nell’azienda di trasporti di famiglia. Ma credevo di impazzire, non durai molto. Anche perchè la sera suonavo fino a tardi, e la mattina ero distrutto».

Nel ’60 uscì il primo disco.

«Non fu il mio primo vero disco, per quello avrei dovuto attendere ancora qualche anno. Fu la mia prima “apparizione su vinile”, in una collana della Fonit Cetra, che aveva sede a Torino, e che si intitolava “Jazz in Italy”».

La svolta?

«L’incontro con Gato Barbieri, che mi infuse fiducia in me stesso. E’ lui mi ha spinto a fare il musicista. Poi andai a Roma, nel suo gruppo. Poi le cose ebbero un’accelerazione: a Londra con Steve Lacy, in Argentina (fra l’altro nei giorni del golpe del ’66), a New York».

Dove rimase dieci anni. Perchè nel ’77 decise di tornare?

«Perchè da un lato lì il clima era cambiato. Il jazz aveva cessato di essere musica popolare e al tempo stesso di alto livello. Il pubblico si rivolgeva ad altri generi. E oggi negli States il jazz esiste solo a New York, a Boston, un po’ a Washington e San Francisco. Nell’America profonda non c’è».

L’altro motivo?

«Che in Europa, e anche in Italia, si era nel frattempo sviluppato un mercato per questa musica. Anche economicamente, mi resi conto che le cose sarebbero andate meglio qui».

Un nome fra tutti i jazzisti con cui ha lavorato.

«Chet Baker, ma devo dire anche Joao Gilberto: sono quelli che mi hanno insegnato di più. Anche se le influenze maggiori le ho avute da Miles Davis, ma con lui ho parlato solo mezz’ora, non ho avuto un rapporto vero e proprio con lui. In questi giorni ascolto le ultime cose di Michael Jackson: le trovo geniali».

Nel libro scrive: vado per sottrazione.

«Sì, credo sia meglio sottrarre che aggiungere. Anche se c’è tanta gente che aggiunge e fa cose meravigliose. Come Proust, il mio scrittore preferito. Ma amo anche Carver, che invece sottrae».

Nel prossimo album aggiunge o sottrae?

«In “Tribe” sottraggo. Faccio cose molto minimaliste, nel senso reale del termine. L’album l’ho già inciso, ma uscirà in autunno, per Ecm».

Rava, dopo aver girato il mondo potrebbe venirle voglia di tornare dov’è nato?

«In realtà ci ho pensato seriamente. Ma Trieste per me ha due problemi: per il mio lavoro, è di una scomodità assoluta per gli spostamenti; e poi la bora, gli inverni freddi. Vivo in Liguria da tanti anni, sono abituato agli inverni miti. Diciamo che per ora, più modestamente, mi piacerebbe venire a Trieste e starci un periodo più lungo di tre giorni, per conoscerla sul serio...».

 .

di ENRICO RAVA

A quattordici anni (mio padre - ndr) era scappato di casa per andare a Fiume con D’Annunzio. La leggenda familiare racconta che fosse il più giovane legionario fiumano. Era sicuramente un uomo in gamba e si era laureato da adulto, come studente lavoratore, dopo aver navigato per tutti i mari come allievo ufficiale di macchina.

Negli anni trenta si era trasferito per lavoro a Trieste, ed è lì che tutto è cominciato, per quanto mi riguarda. Sono nato un attimo prima dell’entrata in guerra dell’Italia. Una guerra che nelle intenzioni doveva durare pochissimo, giusto il tempo di trovarsi dalla parte del vincitore e assicurarsi una (piccola) parte del bottino.

Ho dei ricordi molto vividi dei miei primi tre anni di vita a Trieste. Vedo nitidamente il muro davanti alla casa dove abitavamo, il grande cortile comune a tutte le case dell’isolato e ricordo le mie difficoltà nell’infilare il portone giusto, e poi il ponte sotto il quale passavo aggrappato alla mano di mia madre, piazza Unità d’Italia, gli scogli di fronte alla spiaggia. Sono ritornato a vedere quei luoghi e li ho ritrovati intatti. Anche se molto più piccoli.

Mio padre era al fronte in Jugoslavia, ufficiale di fanteria. Lo vedevo solo quando veniva a casa in licenza e per un paio di giorni non potevo avvicinarlo perchè si doveva prima liberare dei parassiti. Poi nel ’42 siamo “sfollati” in Piemonte, a Villafranca. Avevo quattro anni. Mancanza di cibo, treni mitragliati, poi a Torino bombardamenti, l’urlo sinistro dell’allarme aereo e le corse nei rifugi che altro non erano che cantine in cui si rischiava di fare la fine dei topi. Case diroccate, disperazione e poi la Liberazione.  

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