venerdì 26 gennaio 2007

Le belle canzoni non muoiono mai. E dunque sono ancora vive anche quelle di Luigi Tenco, morto giusto quarant’anni fa, alle 2.30 della notte fra il 26 e 27 gennaio 1967, nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo. «Vedrai vedrai», «Mi sono innamorato di te», «Ragazzo mio», «Un giorno dopo l’altro», «Ho capito che ti amo»... E poi quella «Ciao amore ciao» che volle portare al Festival di quell’anno. La versione originaria - ripresa recentemente dal veneto Massimo Priviero - s’intitolava «Li vidi tornare», aveva contenuti antimilitaristi. A Sanremo non andava bene. Gli fecero cambiare il testo. Non bastò...

Tenco era nato il primo giorno di primavera del ’38 in provincia di Alessandria. Aveva dieci anni, quando la famiglia si trasferì in Liguria, prima a Nervi e poi a Genova. Il liceo classico, abbandonato per lo scientifico. E poi la facoltà di ingegneria, abbandonata per scienze politiche. Ma soprattutto l’amore per la musica, prima il jazz e poi la canzone. A quindici anni forma la Jelly Roll Morton Boys Jazz Band: lui al clarino, Bruno Lauzi al banjo, successivamente anche Fabrizio De Andrè e Gino Paoli. Che è ancora con lui nel ’58, nei Diavoli del rock. Nel ’59 debutta come cantante solista nei Cavalieri: ci sono anche Enzo Jannacci e Gianfranco Reverberi, lui si fa chiamare Gigi Mai, suonano rock’n’roll, incidono anche un disco.

Dopo altri due pseudonimi (Dick Ventuno e Gordon Cliff) nel ’61 esce il primo 45 giri firmato col suo vero nome: «Quando». Ed emerge la sua vena autentica, in anticipo sui tempi. Comincia a scrivere canzoni malinconiche, che parlano d’amore in maniera nuova, disincantata. Canzoni dotate di impianti musicali elaborati, originali, dietro le quali si intuiscono rapporti interpersonali nuovi e un Paese che stava cambiando. Canzoni che nell’Italia del boom e dei 45 giri da un milione di copie non avevano successo, non raggiungevano la grande platea.

Forse per questo, per arrivare finalmente al grande pubblico, Tenco quell’anno andò a Sanremo. Aveva appena firmato un contratto con la Rca, i giornali parlavano della sua relazione con Dalida, e poi c’era quella canzone, «Ciao amore ciao», riveduta e corretta proprio per la platea sanremese...

Sappiamo come finì. Il quart’ultimo posto in classifica, un cosiddetto «comitato di ripescaggio» che salva «La rivoluzione» di Gianni Pettenati, e poi il colpo di pistola, il famoso biglietto, il Festival che nemmeno s’interrompe...

Per anni si è dubitato di quello strano suicidio. E per questo l’anno scorso la salma fu riesumata per tentare di stabilire la verità. Le nuove analisi hanno stabilito che sì, si è trattato di suicidio. Ma per molti, e nell’immaginario collettivo, il mistero è rimasto tale.

Non è un mistero invece che Tenco, in quei pochi anni fra il novembre ’62 del primo album e il gennaio ’67 della morte, scrisse una pagina importante nella storia della canzone italiana. Fu un anticipatore, un antesignano, ma si trovò a fare i conti con un pubblico ancora condizionato dall’Italia bigotta degli anni Cinquanta, pur essendo alla vigilia dei nuovi fermenti e dei ribellismi del Sessantotto.

Se ne parla di nuovo in «Ed ora che avrei mille cose da fare», il libro scritto da Renato Tortarolo e Giorgio Carozzi (cugino di Tenco), edito da Arcana. Un libro che vuole ribaltare l'immagine triste che tutti hanno di Tenco. Uno che diceva: «Bisogna creare qualcosa, rompere il cerchio che ci soffoca, altrimenti è meglio piantare tutto. Non si vive per riuscire simpatici agli altri. A me i soldi, il successo, non interessano, li lascio a quelli più furbi di me in questo genere di cose...».

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