mercoledì 17 gennaio 2007

TRIESTE Sul palco cinque grandi dune di legno, un fondale rosa, un leggìo. Una manciata di minuti dopo le ventuno di ieri sera. Parte la marcetta che ormai fa da sigla a tutte le apparizioni di Roberto Benigni. Che infatti arriva, ringrazia, saluta, fa un paio di piroette, appare e scompare e poi riappare dietro quelle dune che fanno da quinte.

Abito scuro, camicia bianca, il microfono in mano (di quelli col filo, che ormai nessuno usa più...). «Amici di Trieste, quanto vi voglio bene...». I seimila che affollano il PalaTrieste non aspettano altro e non smettono di applaudire.

Lo spettacolo, va detto, sta già nella platea. Seimila persone che pagano un biglietto per vedere e ascoltare un attore, un comico che recita la Divina Commedia. Il titolo dello spettacolo, «TuttoDante», non lascia spazio ai dubbi. Anche se la gente lo sa, che quando c’è di mezzo il toscanaccio Benigni, il Premio Oscar per «La vita è bella», quello che tanti anni fa prese in braccio Berlinguer e pochi anni dopo diede del «Wojtylaccio» al Papa che non c’è più, beh, quando c’è di mezzo lui lo spettacolo è a tutto campo.

E il nostro non tradisce. Dante è il tema, lo spunto, se vogliamo la scusa per parlare di tutto: vita, bellezza, storia, politica, poesia... L’Alighieri viene evocato sin da subito, ritorna continuamente nel discorso, ma passerà più di un’ora prima che Benigni avvicini a sé il leggìo (anche questo all’antica, di quelli che non si usano più, e infatti non vuol saperne di stare all’altezza giusta, e scivola giù, e lui tenta di sistemarlo, ma poi non si fa pregare e si piega quasi in ginocchio per mettercisi davanti...) e si dedichi per davvero alla Divina Commedia. A questo dono «di bellezza incommensurabile che Dante ci ha lasciato», a quest’opera «che voi non immaginate quante persone nel mondo studino l’italiano solo per leggerla nell’originale», a questi «arazzi lussureggianti di bellezza che Dante ha scritto per amore di Beatrice, la sua vicina di casa...».

Prima, prima di dedicarsi al Canto dei lussuriosi («il primo vero dell’Inferno...») e alla storia di Paolo e Francesca, Benigni fa il Piccolo Diavolo, quello delle incursioni televisive, quello che il pubblico ama. «Mi dicono che ultimamente parlo come un prete, anzi, come un arcivescovo. L’arcivescovo di Trieste, non suona male... Vi voglio bene, vorrei leccarvi come un cagnolino, così parlerebbero domani dell’orgia del PalaTrieste... Che bello. Erano anni che non tornavo nella Venezia Giulia, un nome lussurioso...». Poi rivolge a quelli dei settori più alti del palasport e chiede: «Come va lassù a Opcina? E lì a Monrupino...?».

Tutti aspettano le incursioni nell’attualità, nella politica. Eccole. La finanziaria approvata grazie agli spinelli «liberalizzati», quelli che guadagnano oltre 75 mila euro e che pagheranno più tasse. «Pensate: sono andati a discutere nella Reggia di Caserta, che c’hà dùmila stanze. Prodi ci avrà portato i 24 mila elettori che l’hanno fatto vincere...». Le pensioni sono il problema più grave: «Vogliono portare l’età sempre più avanti, fino a quando di solito arriva l’Alzhaimer: così uno di ricorda di aver versato soldi per tutta la vita, ma non ricorda a chi li ha dati e così non chiede nulla a nessuno...».

Giusto una battuta sulla malasanità («Al Policlinico di Roma un posto costa un occhio della testa...»), e siamo a Berlusconi. Con una premessa: «Dopo cinque anni che l’abbiamo tormentato, ora per la pa</CP></CF>r condicio tocca a Prodi. Ma pensate: volevano farlo passare per una spia del Kgb... È come se Lussuria fosse la spia del Vaticano...». Poi non resiste e sbotta: «Silvio ci manchi, ritorna! Senza di te siamo rovinati. Io faccio Dante, Paolo Rossi Shakespeare, la Guzzanti Ariosto... Ritorna, senza di te siamo tutti precari...».

E avanti ancora, con la grande storia e la «scontrosa grazia» di Trieste, con i passi indietro di Baffino D’Alema, con gli insegnamenti cristiani («Aveva detto: crescete e moltiplicatevi, che sarebbe come dire mangiate e fate l’amore. E allora come la mettiamo con quei religiosi che praticano digiuno e castità...?»), con le intercettazioni telefoniche dell’estate scorsa.

La gente ride, applaude. Il Piccolo Diavolo non sta fermo un attimo. È un fiume in piena. Si asciuga continuamente il sudore della fronte con un fazzoletto, si lascia andare ai ricordi e ai personaggi della sua Vergaio, la frazione di Prato dov’è cresciuto. E prima di declamare i versi di Dante («che era povero, non c’aveva mica la Siae: quando si parla di lui si parla di miseria nera...»), ammonisce: «Un popolo che non si occupa del suo passato è pronto per la disperazione. Io sono orgoglioso di essere italiano, ma non sono nazionalista perchè voglio troppo bene all’Italia...».

Una divertente lezione di storia e di bellezza, di senso civico e di poesia. Una lezione-spettacolo di oltre due ore che il pubblico del PalaTrieste (che si aggiunge ai 150 mila che hanno finora assistito allo spettacolo in giro per l’Italia) manda idealmente a memoria...

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