MORANDI
«Apro questo spettacolo con ”Volare”. Ricordo quando la cantavo a Monghidoro, nel bar dove c’era l’unica televisione del paese. Era il 1958, avevo tredici anni. Modugno sconvolse il mondo della canzone italiana ma anche quel ragazzino che ero. Fu un autentico spartiacque. Mentre la canto mi scorre davanti tutta la mia vita...». Che vita, quella di Gianni Morandi. Protagonista e testimone di mezzo secolo di storia italiana. Il cantante ritorna nel Friuli Venezia Giulia con lo spettacolo «Grazie a tutti» (teatro tenda nel piazzale Argentina, a Udine, martedì 6, mercoledì 7 e venerdì 9 maggio; in autunno potrebbe essere la volta di Trieste) e l’occasione è buona per chiedergli di raccontarsi ancora. Partendo magari da quel papà ciabattino, comunista e montanaro, che tornò a Monghidoro dal fronte albanese quattro mesi dopo la sua nascita...
«Mio padre mi ha insegnato il rigore, la disciplina, la voglia di lavorare, il rispetto per gli altri. Aveva un carattere duro e autoritario. Era esigente, con i piedi piantati per terra. Oggi riconosco che è stato molto importante nella formazione del mio carattere: la sua figura mi ha influenzato anche nell'educazione dei miei figli. Con i miei primi due sono stato più rigido, mentre con Pietro, che ora ha dieci anni, mi sono addolcito...».
Che Italia ricorda?
«Era un’altra Italia, in cui si giocava per strada con un pallone fatto di stracci. A sette anni, di pomeriggio, finiti i compiti, mio padre mi portava in bottega per imparare a lavorare. Un paio di giorni alla settimana vendevo caramelle e bruscolini nell’unico cinema del paese. Ma la cosa non mi pesava. Anzi, mi sentivo un privilegiato perchè potevo vedere tutti i film».
Era bravo a scuola?
«Sì, soprattutto in aritmetica. Ma dopo le elementari mio padre decise che non sarei più andato a scuola, che ci avrebbe pensato lui a darmi un’istruzione. La sera, dopo il lavoro in bottega e un paio d’ore di svago, avevo il compito di leggergli ad alta voce i testi sacri del comunismo: dal Capitale di Marx alle Lettere dal carcere di Gramsci».
La musica?
«Erano gli anni Cinquanta, anni di povertà ma c’era anche una gran voglia di cantare, di stare in compagnia. Nelle sere d’inverno ci si trovava nelle stalle, nelle case dei contadini, scaldati dai successi di Claudio Villa e Luciano Tajoli. In paese si sparse la voce che il figlio di Renato Morandi cantava bene. E la sera dell’ultimo dell’anno del 1956 toccò a me cantare ”Buon anno, buona fortuna” nel cinema, con gli altoparlanti Geloso fissati all’esterno della sala».
Il debutto?
«In una casa del popolo ad Alfonsine, vicino Ravenna, nel 1958. Giusto cinquant’anni fa. Ero un ragazzino, avevo quattordici anni, prendevo lezioni di canto dalla maestra Scaglioni e cantavo i successi dell’epoca. Quell’estate cominciarono a chiamarmi nei dancing della zona. Dove incontrai la persona che diede la svolta...».
Chi, l’arbitro di boxe?
«Sì, Paolo Lionetti, che faceva anche il gestore di juke-box. Riuscì a farmi avere un provino alla Rca, la multinazionale americana che nel dopoguerra aveva aperto una filiale a Roma. Tutte le case discografiche stavano a Milano, che era anche più vicina dalla nostra zona. Ma lui decise: andiamo a Roma».
Nel provino cosa cantò?
«Alcune canzoni melodiche dell’epoca, tipo ”Il cane di stoffa” e ”Non arrossire”, accompagnato al pianoforte da Lilli Greco. Il nastro finì fra le mani di Franco Migliacci, reduce dal successo mondiale di ”Volare”. Forse per questo motivo scelse uno pseudonimo per firmare quello che sarebbe stato il mio primo 45 giri: ”Andavo a cento all’ora”...».
Suo padre come reagì al successo?
«Era il ’62. Disse che erano due dischi in uno: il primo e l’ultimo. Aveva la certezza che il mio sogno non sarebbe durato a lungo. E che sarei tornato a lavorare nella sua bottega».
A Roma chi incontrò?
«Dopo Migliacci, Zambrini e due futuri premi Oscar come Bacalov e Morricone... Che fra l’altro ho rivisto due mesi fa, un incontro commovente all’Università di Tor Vergata. All’epoca registravamo su due piste, in un paio di giorni il disco era fatto. Allora i giovani venivano curati, non come adesso che se sbagli il primo disco sei finito...».
Diceva di «Volare»...
«Sì, a febbraio ho aperto Sanremo rendendo omaggio ai cinquant’anni della canzone di Modugno. E quando ho cominciato a pensare a questo mio nuovo spettacolo, mi sono reso conto che anche la mia storia era cominciata da lì, da quel brano, in quegli anni. Mia madre preferiva Villa, ma io nel bar di Monghidoro, a tredici anni cantavo ”Volare”...»
E questa storia che lei entra in scena «volando»...?
"L’idea è del regista dello spettacolo. All’inizio avevo un po’ paura, ma ora mi sono abituato e mi sembra facile. Scivolo al centro della scena appeso a un cavo, ben legato, e canto il brano sulle teste degli spettatori. Mi ha addestrato uno che di mestiere fa l’istruttore di sopravvivenza».
Perchè il teatro tenda?
«È una formula che avevo già adottato nel ’90, mi sembra di esser venuto anche a Trieste. Guardando indietro ai miei spettacoli, ho pensato fosse la migliore: io da solo, con la chitarra, giusto con qualche aggiunta musicale al computer, su un piccolo palco circolare. Uno spettacolo familiare, quasi da salotto, senza filtri. Anche se sotto un tendone da circo, con tremila persone attorno. A volte dal palco per tenermi concentrato conto mentalmente gli spettatori. E in genere sbaglio di cinquanta persone al massimo».
Da «Volare» a oggi: mezzo secolo di canzoni...
«Tranquilli, non le ricanto tutte. Mi dicono che ho inciso 413 canzoni e venduto 49 milioni di dischi. In questo spettacolo, in due ore e mezzo canto fra i quaranta e i cinquanta brani: alcuni per intero, altri solo accennati...».
Il preferito?
«Una volta dicevo ”C’era un ragazzo”. Era il ’66. Non volevano farmela cantare perchè era un brano di protesta, contro la guerra in Vietnam. E io avevo l’immagine romantica del bravo ragazzo che piaceva alle mamme e alle figlie. Divenne un classico, la cantò anche Joan Baez».
E ora?
«Ora ci metto vicino ”Uno su mille”. È la canzone in cui la gente si identifica di più. Un momento di difficoltà, di disperazione capita a tutti. Ma è sempre importante cercare di risalire, di rialzare la testa. Come è successo a me per primo, dopo la crisi degli anni Settanta».
Chi la aiutò, quella volta?
«Mogol, in qualche modo anche casualmente. Lui cercava gente per la sua nazionale cantanti, poi scrisse delle canzoni nuove per me, e la storia è ripartita. Ma anche Dalla mi ha aiutato molto».
Pupo invece l’ha aiutato lei...
«A quei soldi non ci pensavo davvero più. Ormai lo sapevano tutti, che tanti anni fa gli avevo prestato duecento milioni per aiutarlo in un momento di grossa difficoltà. Due settimane fa, all’ultimo dei concerti milanesi, si presenta sul palco - fra l’altro scortato dalle telecamere di ”Striscia” - e mi dà questo assegno... Davvero, non ne sapevo nulla».
Il tour sarà ancora lungo?
«No, dopo Udine facciamo solo Torino. Quest’estate porto mio figlio Pietro a vedere gli Europei di calcio e poi vado in Cina per le Olimpiadi. Farò anche una serata a Casa Italia. Il tour comunque lo riprendo in autunno, spero di venire anche a Trieste. Magari per presentare il secondo capitolo della raccolta ”Grazie a tutti”, che esce a ottobre...».
Comincia con «Volare» e con che cosa conclude?
«Con queste parole: ”Basta, sono cattivo e vecchio. E anche un po’ bastardo...”. Quello creato da Fiorello è un tormentone che ormai non mi molla più. Ma mi diverte...».
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