giovedì 16 settembre 2010

HENDRIX 40
Appena tre anni per rivelare il proprio genio al mondo. Tanti ne passarono fra la pubblicazione nel ’67 di ”Are you experienced” e la morte, avvenuta il 18 settembre 1970. Tre anni per entrare nella storia. Quaranta che Jimi Hendrix non c’è più.
Ma il ricordo di colui che molti considerano come il più grande chitarrista rock di tutti i tempi oggi sembra più vivo che mai. Fra inediti sbucati miracolosamente fuori dopo tutto questo tempo (”Valleys of Neptune”) e cofanetti antologici, fra collane discografiche (come quella proposta in queste settimane da ”Repubblica”) e mostre, fra libri e concerti, quest’anno il mondo della musica sembra voler celebrare l’anniversario con maggior forza rispetto a quelli precedenti.
James Marshall Hendrix era nato a Seattle, stato di Washington, il 27 novembre 1942. Madre di origini cheyenne, padre afroamericano, sangue gioiosamente bastardo nelle vene, infanzia difficile. La chitarra diventa la sua inseparabile compagna. Il blues e il rock’n’roll i suoi punti di riferimento. La gavetta americana è lunga e avara di soddisfazioni. Fino al ’66, anno della svolta, quando Chas Chandler degli Animals lo porta a Londra e gli procura un contratto discografico e un gruppo, con Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria: è nata la Jimi Hendrix Experience.
Poi la storia, che fino a quel momento era andata avanti con il freno a mano tirato, comincia a viaggiare a mille. La pubblicazione del singolo ”Hey Joe” (cover sporca e aggressiva di un blues di Billy Roberts) e subito dopo del primo album, la partecipazione al Monterey Pop Festival e l’uscita del secondo ellepì ”Axis: Bold as Love”. In mezzo le chitarre incendiate sul palco e i tanti amori, l'alcol e le droghe, l’animo ribelle. E poi il doppio ”Electric Ladyland” e la partecipazione a Woodstock.
Hendrix fu il protagonista dell’epica chiusura del festival, che nelle intenzioni degli organizzatori doveva terminare domenica 17 agosto ’69. Il chitarrista insistette per essere l’ultimo a esibirsi e salì sul palco alle nove del mattino di lunedì 18 agosto. La maggior parte degli spettatori era già ripartita, e ”soltanto” ottantamila persone assistettero a quelle due ore di performance, con l’inno americano fatto a brandelli dalla chitarra elettrica. Una straziante, allucinata versione psichedelica si ”Star Spangled Banner”, volutamente distorta in una provocazione diventata il simbolo della protesta pacifista e antimilitarista. Fu l’apice, la vetta, il canto del cigno.
L’artista morì un anno e un mese dopo, in una stanza del Samarkand Hotel, a Londra, in circostanze tuttora avvolte dal mistero. La causa ufficiale è che sia stato soffocato dal suo stesso vomito, quello che avvenne in quei tragici minuti però non è chiaro. Alcuni dicono che fu ammazzato. Non aveva nemmeno ventotto anni.
Non fosse anche lui morto giovane in quei travolgenti mesi a cavallo fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta (dopo Brian Jones, prima di Janis Joplin e Jim Morrison), ora Jimi sarebbe un signore vicino alla settantina. Nell’immaginario collettivo è rimasto quel ragazzo con lo sguardo trasognato e sofferto, le labbra grandi, la capigliatura afro.
Il mondo lo ricorda in tanti modi. A Londra, fino al 7 novembre, l'Handel House Museum propone ”Hendrix in Britain”: foto, abiti, memorabilia, testi autografi. Una mostra anche a Milano: alla galleria Photology, ”Hendrix Now” racconta la sua storia con immagini firmate Baron Wolman, Jorgen Angel, David Redfern e Gianfranco Gorgoni. Il primo Jimi Hendrix Day italiano si svolge domani a Brescia.
Poi, come si diceva, tanti dischi. E libri: ”Jimi santo subito!” di Enzo Gentile, ”Jimi Hendrix in Italia 1968” di Cesare Glebbeek e Roberto Crema, ”Scusami, sto baciando il cielo” di David Henderson, ”Una foschia rosso porpora” di Harry Shapiro e Caesar Glebbeek... E l’omaggio di Carlos Santana, che nel suo nuovo cd ”Guitar heaven: the greatest guitar classics of all time” ha incluso la cover di ”Little wing”. Anche quello un modo per dire: ciao Jimi. E grazie.

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