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domenica 10 aprile 2011
THE WALL
I muri hanno sempre diviso qualcosa, qualcuno. Quelli del Novecento separavano, nel caso di Berlino anche fisicamente, l’Occidente dal comunismo. Oggi rimangono quelli che tentano di tracciare una linea fra povertà e ricchezza, fra lotta quotidiana per sopravvivere e abbondanza, fra miseria e spreco.
Roger Waters, già leader dei Pink Floyd, dice che su un graffito a Gerusalemme una volta gli è capitato di leggere: «La paura alza i muri». Un’immagine, una frase che evidentemente lo ha ispirato, prima di decidere di portare in giro per il mondo “The Wall live”, di nuovo dopo vent’anni, nel trentennale dello storico album dei suoi Pink Floyd.
Un tour che è partito il primo giorno di primavera a Lisbona, ha già toccato Milano (sei repliche tutte “sold out” al Forum di Assago, dove tornerà il 6 e 7 luglio), mercoledì sera è all’Arena di Zagabria, e fra le altre tappe - in Olanda, Ungheria, Repubblica Ceca, Russia, Finlandia, Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania - sarà anche il 20 giugno all’Olympiahalle di Monaco di Baviera.
Che intuizione, quella di “The Wall”. Con quel “concept album” la band inglese anticipò di ben dieci anni, nel ’79, il crollo del muro per antonomasia, quello di Berlino. Dove il 21 luglio del ’90, nel primo anniversario della caduta del muro, fu presentata una colossale messinscena dello spettacolo, dieci anni dopo le trentuno repliche andate in scena fra l’80 e l’81. Ora lo spettacolo ritorna, rivisto e corretto per il nuovo millennio, con Waters orfano degli originari compagni d’avventura.
«Il mondo - ha ricordato il musicista quando ha presentato il tour europeo, che segue quello statunitense, ricco di un incasso di 89,5 milioni di dollari in 56 serate, che ha già abbondantemente ripagato i costi dello show - è ancora pieno di muri. C’è un muro che separa i ricchi dai poveri, un muro tra il primo, il secondo e il terzo mondo, ci sono muri che dividono la gente a causa del loro credo e della loro ideologia».
Lo spunto iniziale di “The Wall” è il ricordo del padre di Waters morto in guerra (nel ’44, ad Anzio, quando il musicista era un bimbo di quattro mesi), ma lo spettacolo poi diventa il racconto della crisi di una rockstar - crisi che l’artista ha vissuto per davvero -, che lo porta a calarsi nei panni di un dittatore che si chiude dietro a un muro, cercando nell’infanzia le origini della sua alienazione.
Ma oggi, riflette il musicista, «chi ha alle spalle una storia come la mia non scrive “The Wall”, va a raccontarla nei reality show, in cerca di quindici minuti di celebrità. Si diventa famosi senza saper far nulla, non c’è più bisogno di saper recitare, cantare o che so io. Al contrario, è la totale mancanza d’immaginazione a creare il personaggio».
Già, i reality. La televisione, la necessità di apparire, i quindici minuti di notorietà che, diceva Andy Warhol, non si negano a nessuno. «La tv - è sempre il pensiero di Waters - è il vero oppio dei popoli. Foraggia consumismo e propaganda. Crea dipendenza. Nonostante i social network, la gente non riesce a comunicare e a scambiarsi le idee. Nazionalismo, razzismo, sessismo e religione generano le stesse paure che hanno paralizzato la mia infanzia».
Fino alla notazione finale: «Oggi quando canto “Another brick in the wall - Part II” penso all’inutilità delle guerre. Mi chiedo: che stiamo a fare in Afghanistan? Cosa siamo andati a fare in Iraq? Tutto gira sempre intorno alla conquista, al potere, ai soldi. Dagli antichi romani a oggi, passando per l’imperio britannico. La guerra è sempre stata una droga».
Quello che l’ex Pink Floyd sta portando in giro per l’Europa è uno degli show più monumentali ed emozionanti della storia del rock. Riletto grazie alle tecnologie più avanzate, con un impianto scenografico che - assieme a musiche ormai diventate classici - ogni sera lascia gli spettatori a bocca aperta.
Il muro immaginato oltre trent’anni fa da Waters evocava la Germania divisa. Oggi torna a parlarci di nuove barriere culturali, dei simboli del potere e della religione che dividono anzichè unire, dei conflitti storico-culturali di ieri e di oggi. Ma anche di muri interiori che ognuno di noi erige dentro se stesso, di nuove tecnologie che privilegiano realtà virtuali a scapito di mondi e conoscenze reali, di un’incomunicabilità individuale che chiude ogni essere umano in una sorta di microcosmo.
Lo show che arriva a Zagabria comincia con il sessantasettenne bassista entrare in scena nerovestito. Un mantello, una fascia rossa sul braccio a evocare una divisa militare, il saluto al pubblico. Poi fuochi artificiali, figuranti in divisa militare, bandiere e aerei (che non sganciano bombe ma crocifissi, stelle di David, mezzelune, simboli della Shell e della Mercedes), suoni e scenari di guerra, atmosfere drammatiche e messaggi di pace, i volti dei caduti nelle guerre recenti (e Waters ha chiesto di mandare altre foto al suo sito), mentre un grande muro - the wall - di 743 metri quadrati prende forma mattone dopo mattone, fila su fila. Dinanzi a uno schermo circolare alto ottantacinque metri.
Su questo schermo vengono proiettate, in uno scenario da grande fratello (quello originale, orwelliano...), le immagini di mastodontici pupazzi. Mentre le musiche dell’album scandiscono con toni a tratti violenti la storia dei Pink Floyd, la vita e i ricordi di Waters: la morte del padre, la madre iperprotettiva, una scuola troppo autoritaria, la salvezza attraverso la musica, ma poi anche la vita dorata ma alienante da rockstar. E fu proprio quel senso di alienazione per la vita da star, unito a una mancanza di comunicazione con il pubblico, ad ispirare un tormentato Roger Waters, nel 1979, nel comporre “The Wall”.
Alla prima milanese, introducendo il brano ”Mother”, il musicista inglese ha detto: «Sembra strano siano passati trentadue anni dall’inizio di “The Wall”, è strano come il tempo passi in fretta. Adesso vedrete parte di un video del 1980 tratto dal nostro concerto a Londra. E farò un duetto a doppia voce assieme al povero piccolo disperato Roger che ero in quegli anni...».
Per poi aggiungere alla fine, dopo aver ringraziato il pubblico: «Una volta non ero così, ero una persona misera, ma è passato tanto tempo e adesso sono cambiato». I muri, le guerre che ci racconta, invece, sono terribilmente uguali a quelli che trent’anni fa gli avevano ispirato “The Wall”.
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