domenica 23 febbraio 2014

SANREMO, TANTA LUNGHEZZA E POCA BELLEZZA

Sempre meno festival della canzone, sempre più nostalgico varietà televisivo, avanspettacolo, autocelebrazione, gigantesco contenitore con dentro tutto e il contrario di tutto. In un mondo dove i consumi musicali da tempo si sono parcellizzati, dove ogni gruppo e ogni tribù - giovanile e non - hanno la propria musica, i propri artisti, le proprie mode, il problema è che ogni anno Sanremo pretende di fare un maxi-spettacolo per tutti i gusti, una mega-maratona di cinque sere, dall'ora di cena fino alle ore piccole, le cui leggi sono dettate sempre e comunque e solo dai dati di ascolto. Meno dell'anno scorso, più di quella volta con la Ventura, così così rispetto a Morandi, e vai con i paragoni che appassionano solo Rai e organizzatori. Fazio si è da tempo baudizzato, il suo immutabile e ormai decennale teatrino collaudato a "Che tempo che fa" con la Littizzetto mostra la corda. Siamo in presenza di quei meccanismi di spettacolo, il presentatore perfettino che finge di scandalizzarsi per le parolacce e le provocazioni di lei, che la prima volta ti divertono, la seconda un po' meno e poi, via via, fino a un senso di autentico e sincero fastidio. Idem per questo eterno clima da "politically correct" de noantri. Quest'anno il pretino savonese e il suo staff hanno puntato sulla bellezza ferita del nostro Paese, simboleggiata da quella scenografia settecentesca ma "sgarrupata" della triestina Emanuela Trixie Zitkowsky e dalle immagini, la prima sera, del treno deragliato sulla Genova-Ventimiglia. Sfiga ha voluto che il sipario non ha funzionato e sono subito arrivati i due disoccupati aspiranti suicidi dal loggione: "nu juorno buono", giusto per citare il rapper salernitano Rocco Hunt, vincitore fra i giovani, in questi casi si vede dal mattino... Come ha detto qualcuno, l'Italia è stufa dei suoi partiti (Baudo stava alla Dc come Fazio sta al Pd) ma anche del suo Sanremo, li vota e lo guarda ancora ma molto meno che in passato. E il paradosso vuole che nelle stesse ore in cui va al governo il più giovane premier di sempre (ieri sera brevemente sbeffeggiato da Crozza), le cui parole d'ordine sono rottamazione e una riforma al mese, al festivalone non cambia mai nulla. Anzi, i piccoli progressi intravisti l'anno scorso e in alcune edizioni passate stavolta sono stati spazzati via con un colpo di spugna. A botte di Carrà e Kessler, Franca Valeri e Don Matteo, maestro Manzi e Brignano e persino Mago Silvan. Ma la botta definitiva arriva dalle canzoni. Il vecchio patron Ravera diceva che per fare un buon festival ci vogliono almeno tre brani che non si dimenticano facilmente: merce quest'anno molto rara, anzi, inesistente. Le cose migliori da Cat Stevens, Damien Rice, Rufus Wainwright (tutti dopo mezzanotte), Paolo Nutini, Ligabue (tornato anche ieri sera), Stromae. In Italia siamo sempre in bilico, ha detto Crozza, fra la grande bellezza e l'enorme disastro. Parole sante. È vero, in Italia abbiamo ben altri problemi. Sanremo è fuori classifica, ma non può essere migliorato. Il suo dna è questo. Può essere trasformato in un Sanremo Awards, affidato a Pif (le cui pillole avrebbero alleggerito le serate se distribuite fra le canzoni, magari al posto di legioni di ospiti inutili). Oppure chiuso. Con buona pace per tutti.

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