domenica 22 giugno 2014

PEARL JAM A TRIESTE, IL ROCK CHE NON MUORE...

Alla faccia di chi periodicamente sentenzia che il rock è morto. Ore 20.51, una manciata di minuti in anticipo, c'è ancora luce, lo Stadio Rocco è un catino fiammeggiante. Escono i Pearl Jam, i primi accordi di chitarra riempiono la sera, la grande festa può aver avvio. Si parte con "Small town", roba di vent'anni fa. Poi "Low light" e "Black", sempre dagli anni Novanta, ma subito arriva "Sirens", uno dei brani più amati dal recentissimo "Lightining bolt". È la festa della musica, la festa dell’estate che comincia, la festa del grande rock che in realtà non muore mai. Funerale e necrologi possono attendere, fino a che in giro ci sono certi gruppi. L’attestato di esistenza e resistenza in vita è firmato in contemporanea dagli arzilli settantenni dei Rolling Stones che a seicento chilometri di distanza, a Roma, infiammano i sessantamila e rotti del Circo Massimo, ma anche dai nostri eroi di Seattle arrivati fino a Trieste: cinque ex ragazzi ormai anche loro attorno ai cinquanta (Eddie Vedder li compie a dicembre), che in quasi cinque lustri di carriera hanno scalato posizioni fino a insediarsi ormai da tempo in quell’olimpo del rock che accoglie solo i grandissimi. I trentamila del “Rocco”, di cui almeno 26mila arrivati da ogni dove (Slovenia, Croazia, Austria, Germania, Serbia, ma anche Ungheria, Grecia, Repubblica Ceca, persino Irlanda e Emirati Arabi, oltre ovviamente che dal resto d’Italia, visto che l’unica altra tappa era Milano), ne sono la prova vivente e rispondono all’appello. Palco spartano, quasi spoglio. Una specie di grande scatola aperta verso il pubblico, con dentro strumenti e amplificazione. Due maxi schermi rilanciano immagini in bianco e nero. Roba quasi da poveretti, se messa a confronto con certe megaproduzioni da guerre stellari che vengono portate in giro per il pianeta da artisti e gruppi che badano più alla forma che alla sostanza. Qui, con i ragazzacci che tanti anni fa hanno preso il nome dalla marmellata (jam) allucinogena a base di peyote amorevolmente confezionata dalla nonna (Pearl) di uno di loro, la sostanza c’è tutta. Si vede e si sente. Odora di sano e solido rock degli anni Settanta, trasgressivo al punto giusto, sapientemente innervato sulle radici grunge del loro debutto. E quando c’è la sostanza, non c’è bisogno di stupire il pubblico con effetti speciali. Basta la musica, basta il rock. Vedder, capelli corti e barbetta e camicia a quadrettoni, non è “solo” il cantante e chitarrista della band. Prima di incontrare i suoi soci era un piccolo benzinaio di provincia, con la passionaccia per la musica. Ora è l’anima, il deus ex machina, quasi una sorta di sciamano che dirige e conduce le danze. Un ruolo centrale, adeguatamente sorretto e supportato da quella gioiosa macchina da guerra musicale formata da Stone Gossard e Mike McCready alle chitarre, Jeff Ament al basso e Matt Cameron alla batteria, con il supporto di Boom Gaspar (sorta di “membro aggiunto”) all’organo Hammond. Nelle prime file un fan sventola una bandiera cilena. Eddie legge da un foglietto che a Milano ha bevuto troppo vino, che stasera non berrà (ha scelto il posto giusto), i "buuuh" del pubblico lo convincono almeno a un brindisi: alza la bottiglia e grida "Salute Trieste!". Poco dopo ricorderà il suo miglior amico scomparso da poco, e ad alzarsi verso il cielo sarà un collettivo "Hallo, John...". La notte è scesa sullo stadio, lo show prosegue. Ed è quello della maturità conquistata e difesa sul campo. Pesca altri brani dall’ultimo album “Lightning bolt” ("Infallible", "Mind your manners", "Getaway"...) già mandati a memoria dai fan, ma anche perle ormai d’annata, da un repertorio ultraventennale: album come “Ten” ("Why go" e "Even flow") e “Vs”, “Vitalogy” ("Corduroy") e “No code”, “Riot act” e “Backspacer” ("Got some") fanno ormai parte della miglior storia del rock. La loro miscela unisce i riff che infiammano gli stadi (per tanto tempo “evitati” dalla band, che preferiva spazi più raccolti) e quella rabbia, quella durezza, quella dolce incazzatura che ha marchiato i primi vagiti del grunge, dando la stura a quell’ondata musicale che partendo da Seattle ha rivitalizzato il rock a cavallo fra anni Ottanta e Novanta. In più, loro ci mettono sensibilità e impegno: impegno politico e a difesa dell’ambiente, un messaggio di speranza per il popolo del rock, tradizionalmente vicino a questi temi. Alcuni in questi ultimi anni hanno chiamato quei cinque ragazzi sul palco “i sopravvissuti”, o anche “quelli che non sono morti”, per rimarcare la differenza con quanti invece non ce l’hanno fatta, a partire da Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, suicida nel ’94, giusto vent’anni fa. In questi vent’anni e con sessanta milioni di dischi venduti, Vedder e compagni sono invece diventati delle superstar mondiali. Ha ragione Bruce Springsteen, che due anni fa infiammò questo stadio come e più dei Pearl Jam: «Sono uno dei pochi gruppi con la resistenza fisica e le doti critiche e di autoanalisi necessarie a superare il momento di maggior successo e continuare a servire un pubblico che è in cerca di una musica essenziale. E di se stesso». Chiudiamo queste note prima della conclusione del concerto. Che a giudicare dai precedenti (le due date d’esordio di Amsterdam e la tappa milanese di venerdì sera), dovrebbe durare tre ore e superare dunque la mezzanotte. Oltre trenta brani in scaletta, per saziare la fame di musica e rock e buone vibrazioni del popolo dei trentamila che ha pacificamente invaso lo Stadio Rocco. Anche questa volta Trieste ha risposto bene, benissimo. Da matura città europea, aperta verso il futuro e la speranza. Futuro e speranza che passano soprattutto attraverso i ragazzi e dunque anche attraverso la loro musica. Quel rock che dopo sessant’anni non è morto, ma «vive e lotta assieme a noi», e il cui spirito originario sopravvive anche grazie all’estro e all’onestà di una band chiamata Pearl Jam.

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