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martedì 19 aprile 2016
FLORIS 22-4 APRE LINK A TRIESTE
I talk show sono in crisi? «No, il pubblico è sempre quello. Sono i programmi che sono aumentati e si dividono la stessa torta». La politica? «Siamo in un periodo in cui non dà gran prova di sé. È sin troppo omologata, standard, quasi “leggera”». L’ospite migliore? «Quello preparato ma che sa sorridere, profondo ma leggero, capace di discutere con persone che hanno idee diverse dalle sue...».
Giovanni Floris ritorna a Trieste per aprire, venerdì alle 16, la quattro giorni di Link. Premio Luchetta incontra, il Festival dedicato al mondo dell’informazione. Alla Fincantieri Newsroom di piazza della Borsa, alle 16, dialogheranno con lui Beppe Giulietti, presidente della Fnsi, e Andrea Filippi, direttore de “La Nuova Sardegna”
Da due anni, Floris conduce su La7 il talk show “DiMartedì”, con cui idealmente sfida quel “Ballarò” che per dieci anni, su Raitre, era stato il suo regno e ora è condotto da Massimo Giannini. Per molti, il martedì sera, spesso sfruttando le pause pubblicitarie, saltare da un programma all’altro è un’abitudine.
Floris, i talk sono in crisi perchè la politica è in crisi?
«Distinguiamo. Quando ho cominciato “Ballarò” mi dicevano che solo un telespettatore su dieci è interessato alla politica. Ma erano tempi in cui i talk erano pochi, in questi anni si sono moltiplicati. Ed è successo anche che abbiamo vissuto anni, diciamo la stagione di Berlusconi, in cui avvenivano fatti eccezionali, che travalicavano i confini della politica tradizionale per entrare nei terreni del gossip, della cronaca nera, della giudiziaria. Ai tempi del cosiddetto processo Ruby arrivavano in Italia giornalisti e troupe televisive da mezzo mondo...».
Ora siamo tornati alla normalità?
«Diciamo che la politica è meno interessante, infatti perde spazio nei talk, nei quali ora si parla molto di economia, di cronaca, di problemi che interessano di più alla gente comune. E i talk non perdono ascolti nel complesso, li perdono singolarmente perchè le proposte sono tante e in concorrenza l’una con l’altra. Insomma, dopo una stagione “eccezionale”, siamo tornati a quell’uno su dieci che si interessa all’argomento. La torta è sempre quella, sono aumentati i commensali».
Crozza l’ha seguita su La7.
«Ne sono molto contento. Vuol dire che il rapporto è solido. A livello di satira, credo che oggi lui sia il numero uno in Italia. Ha una capacità non comune di cogliere gli elementi di grottesco della realtà. I suoi interventi sono veri e propri editoriali».
Ha imitato anche lei.
«E devo dire che ho riso tanto, mi sono divertito moltissimo. Lui fa un grande lavoro di preparazione sui personaggi, ha un’ottima squadra, riesce a cogliere tic e caratteristiche di ognuno. Evidentemente in tanti anni ha studiato per bene anche me...».
In tanti anni di ospitate avete anche creato dei “mostri”...
«Non credo. Da noi sono passati in tanti, alcuni sono cresciuti, si sono imposti all’opinione pubblica. Altri sono spariti. La televisione non crea, al massimo mette in mostra. Nel caso dei politici, poi sono i partiti a puntare sull’uno o sull’altro. E alla fine è sempre la gente che decide se uno va bene o non va bene».
Ma il livello medio dei politici è scaduto.
«Un problema di formazione politica esiste, inutile negarlo. Un tempo c’erano le scuole quadri, esisteva la gavetta: si cominciava nei consigli circoscrizionali, poi il Comune, la Provincia, la Regione... Sono alla fine di un lungo percorso chi valeva faceva il salto al parlamento, alla scena nazionale».
Da qualche anno, invece...
«Ci sono donne e uomini che si trovano alla Camera o al Senato di punto in bianco, senza grande esperienza e anche senza sufficiente preparazione. È sempre così, quando quando c’è un ricambio della classe dirigente. Ma vedo che i partiti si stanno attrezzando, nascono di nuovo le scuole di formazione, sia da una parte che dall’altra».
L’11 settembre 2001 le ha cambiato la vita.
«Sì, ero a New York per la Rai, inizialmente per sostituire temporaneamente un collega. L’attentato alle Torri Gemelle fu un evento di tale portata, di quelli che ti segnano più come persona che come professionista. Ha cambiato la mia vita e la storia professionale in maniera netta e repentina, al di là del fatto che ovviamente non avevo mai affrontato una cosa nemmeno paragonabile a quanto accadde».
Il passaggio a conduttore?
«Avevo dei dubbi. All’Agi mi ero occupato di economia, poi gli esteri furono una novità, la corrispondenza da New York un’altra novità. Ma davanti alle cose nuove io non mi spavento. Diciamo che colgo queste esperienze come delle opportunità. E mi ci butto».
Dopo vari saggi ha appena pubblicato il suo secondo romanzo.
«Sì, s’intitola “La prima regola degli Shardana” ed è il seguito del precedente “Il confine di Bonetti”. Racconta la vita di tre amici quarantenni, alla soglia dei cinquant’anni, che hanno la grande possibilità di avere una seconda occasione. Ma anche per sintonizzarsi con la propria età, per scoprire il lato positivo della propria età».
Libro autobiografico?
«In parte sì. I protagonisti sono tre vecchi compagni di liceo. Diventati un avvocato da cause piccole, di quelli che si arrangiano con gli incidenti stradali; un imprenditore mezzo fallito che tenta di risollevarsi; un giornalista che ha ancora voglia di avventura».
E il giornalista magari somiglia a lei...
«In parte. Diciamo che racconto il mondo che conosco, dunque in alcuni tratti potrebbe anche somigliarmi».
Somiglianze a parte?
«Il romanzo è un po’ lo specchio del nostro Paese, che ha vissuto una stagione di sviluppo ma ora sembra rassegnato, deluso, quasi in difesa. I tre protagonisti si riconoscono sempre meno in questa società, vivono in mondo che stentano a comprendere, ma poi si salvano nella solidarietà, nell’altruiscmo, nella capacità di fare squadra, di non mollare mai il compagno che è rimasto indietro».
È vero che ha scritto il libro nel passaggio dalla Rai a La7?
«Sì, forse per questo parla di passione nel rimettersi in gioco».
E la regola del titolo?
«È svelata all’ultima riga. Ed è una regola semplicissima: non fare mai la pipì controvento...».
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