domenica 17 aprile 2016

MARIO FEROCE, UN TRIESTINO A PARIGI

«Domani uscirà, in un festival parigino, il mio cortometraggio “Keep in touch”, che è la mia prima commedia, scritta insieme alla bravissima Sivia Lavit Nicora...». Parla Mario Feroce, triestino, classe 1955, partito tanti anni fa da Trieste alla volta della Francia, con il fagotto - inteso come strumento... - in spalla, a cercar fortuna come musicista. E affermatosi nel corso negli anni prima come direttore d’orchestra e successivamente come regista. Questo 2016 è per lui un anno speciale. Il suo film “Le sable” verrà ridistribuito nei prossimi mesi in versione rimasterizzata in Francia e arriverà per la prima volta anche in Italia. A settembre uscirà “Sun”, girato in inglese, secondo episodio della sua personalissima tetralogia sugli elementi. Nel frattempo sta discutendo con un produttore un progetto cinematografico intitolato “La sirène et la petite fille”. E ha in testa un lavoro sul ghetto di Venezia... «Sono partito da Trieste nell’82 - ricorda -, perchè l’ambiente musicale cittadino mi stava stretto. Avevo il mio diploma al Conservatorio Tartini in fagotto. A Parigi ho studiato con Michel Denize e Maurice Allard, fra i migliori specialisti d’oltralpe dello strumento. All’inizio ho fatto mille lavori, ho suonato anche alle fermate della metropolitana: i francesi, abituati a vedere là sotto soprattutto chitarristi, erano piuttosto incuriositi nell’incontrare un suonatore di fagotto...». Feroce studia direzione d’orchestra, torna per brevi periodi anche in Italia, a seguire i corsi di Franco Ferrara e Carlo Maria Giulini. Ed è con la bacchetta in mano che raggiunge il successo, soprattutto con la «Passione secondo Giovanni» di Bach, poi diventata anche un film, diretta da Jean-Claude Malgoire e messa in scena come un'opera sacra. «Il cinema - spiega - è entrato nella mia vita come un serpente, senza quasi che me ne accorgessi. Mi hanno conquistato le sue potenzialità espressive. Nel 2001 decisi di lanciarmi nel primo lungometraggio, “La porta, blu”. Film dal budget "lillipuziano", forse un po’ troppo ambizioso per essere il primo lungometraggio e che finì dunque in un cassetto, anche se tecnicamente finito...». Ma il passo ormai era fatto. E i lavori si sono susseguiti. Dopo il cortometraggio “Mal di fede (Crise de foi...e!)”, e dopo il libretto e la regia dell'opera di Olivier dos Santos “La chiave del Paradiso”, dieci anni fa il film “Le sable”, storia d’amore tra due ragazze, molto prima de “La vita di Adele” e tante altre pellicole sul genere. «Mi interessava - ricorda - scoprire il loro turbamento, i loro sguardi, le loro sensazioni. Ho sempre dato più importanza alle storie di donne. La più bella ricompensa è stata di vedere che il film non turba, anche perchè non comprende scene scabrose. Tutti lo vedono solo come una storia d’amore. E questo era il mio messaggio: rispettare l’amore che in qualsiasi forma si presenti è più degno e rispettabile che tutto l’odio che riceve da quelli che non lo condividono». I suoi maestri? «Ho ammirato Fellini, Wim Wenders, Visconti. E studiato con Ermanno Olmi. Giro in modo leggero e naturalistico, unendo il vecchio sogno del neorealismo italiano e della nouvelle vague francese. Sono troppo libero per seguire un dogma, ho creato il mio piccolo universo personale. Credo onestamente di non aver mai voluto imitare nessuno». Altri progetti? «Un documentario sul ghetto di Venezia e una trasmissione televisiva nel sud della Francia dedicata all’arte. Poi abbiamo aperto una nuova scuola di recitazione a Parigi: École d'acteurs artisans. Io insegnerò tecnica di recitazione davanti alla cinepresa e tecnica dell'improvvisazione nel cinema. Apriremo a settembre».

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