giovedì 28 aprile 2016

MONI OVADIA RICORDA JANNACCI AL T.MIELA DI TRIESTE

«Enzo Jannacci è stato per me il più grande poeta e autore della canzone italiana. Ha cantato con una grazia insuperata e insuperabile l’epopea dei poveri cristi, degli umili, degli ultimi, quelli che anche io ho frequentato nella Milano di tanti anni fa: i barboni, i balordi, gli sbandati, i ladruncoli, il primo travestito in piazza Napoli, dove abitavo. Ogni sorta di umanità marginale. Per questo motivo ho voluto ricordarlo con questo spettacolo». Moni Ovadia torna mercoledì a Trieste, al Teatro Miela, per la stagione “Altri percorsi” (organizzazione Stabile regionale e Cooperativa Bonawentura), con il suo nuovo spettacolo intitolato “Il nostro Enzo. Ricordando Jannacci”. Sul palco soltanto lui con il pianista Alessandro Nidi. «È stato proprio lui, Alessandro - spiega Salomone “Moni” Ovadia, massimo divulgatore della cultura yiddish nel nostro paese -, a suggerirmi di fare questo spettacolo. E aveva ragione. Fra le mie tante identità io sento molto forte quella milanese, sono cresciuto nel quartiere popolare del Giambellino, ho imparato il dialetto per strada, lo parlo, e Jannacci ne è stato il più grande interprete di quella cultura. Lui non aveva debiti, è stato artista originalissimo, un caposcuola come Renato Carosone, come Roberto Murolo, come Fred Buscaglione. E aggiungo come Lucio Dalla, le sue sono state le ultime grandi ballate della canzone italiana». Ancora Ovadia: «Enzo ha cantato la Milano che anch’io ho conosciuto negli anni Cinquanta e Sessanta, quella che oggi non esiste più, e ne ha espresso la grande poesia. Che poi lui fra l’altro nasceva bene, la sua famiglia veniva dalla Puglia, lui era medico e diplomato al conservatorio. È cresciuto, siamo cresciuti quando il benessere era la radio nuova, la cinquecento, il frigorifero, la torta per i bambini la domenica». Lo spettacolo è un recital, ricco di canzoni, di episodi, di ricordi. Attraverso i quali l’arte e la poesia di Enzo Jannacci rivivono almeno per una sera. Rivivono anche il suo ottimismo, la sua energia, la sua voglia di vivere. Lui che si domandava: «Come si fa a cadere nel pessimismo quando c'è la musica?» Quando è mancato, nel marzo di tre anni fa, Moni Ovadia ha scritto su La Stampa: «Il suo talento di musicista si esprimeva al meglio nel jazz come nel rock, ma la fonte più intima della sua prodigiosa ispirazione era l’humus poetico-culturale delle periferie urbane e specificamente quelle della sua Milano. La “capitale morale”, quando Jannacci fece la sua comparsa sulle scene della canzone e del cabaret, era una metropoli industriale in pieno e impetuoso sviluppo, dava lavoro, chiamava gli immigrati dalle periferie meridionali orientali ed isolane dello Stivale. Ma la stessa orgogliosa città albergava nei suoi interstizi e nei suoi sottofondi, la povera gente, i disperati, i fuori di testa, gli esclusi, i sognatori senza voce, i terroni, gli abbandonati dall’amore e dalla vita, le puttane navi scuola da strada e da cinema». Ancora da quel toccante ricordo: «Di tutti questi poveri cristi, lui è stato il cantore assoluto. Jannacci ne ha colto, incarnato e raccontato la storia, le emozioni, i sentimenti e la vita vera. Di quel popolo ha interpretato la malinconica, maleducata e balorda grazia, ha rivelato che la poesia dei luoghi, fiorisce nei gesti impropri e sgangherati degli ultimi fra gli ultimi, nella loro grandiosa lingua gaglioffa e sfacciata. Enzo non era nato povero cristo, aveva fatto ottimi studi in ogni senso, ma quella condizione l’aveva incorporata con arte alchemica». Nel recital che arriva a Trieste tornano grandi classici e anche episodi meno noti di una carriera maiuscola, sempre in bilico fra canzoni dialettali, tentazioni rock, reminiscenze jazz. Un repertorio immenso, creato collaborando con amici che poi erano grandi artisti della statura di Dario Fo e Giorgio Gaber, e poi ispirando a sua volta altri personaggi dello spettacolo, tra cui Renato Pozzetto e Diego Abatantuono. «Il dialetto è fondamentale - aggiunge Ovadia - nella poetica di Jannacci. Una volta Pier Paolo Pasolini, i cui “Scritti corsari” andrebbero ancora letti e riletti, disse che è un crimine aver messo la lingua italiana “contro” i dialetti. E il grande poeta siciliano Ignazio Butitta aggiunse che un popolo diventa servo quando gli viene tolta la lingua, il dialetto». «Questo spettacolo - prosegue l’artista - ha debuttato ad Asti con l’Orchestra Paganini, poi è stato replicato a Milano, al Teatro dell’Elfo, a Parma, a Lugano e in altre città. A Trieste proporremo capolavori “Vengo anch’io, no tu no” e “L’Armando”, “El purtava i scarp del tennis” e “Ma mi”, ovviamente “Vincenzina e la fabbrica, brano di struggente umanità. Di quelli da far sentire a Marchionne...». Ancora: «Ho amato di Jannacci la caratura di grande interprete stralunato, surreale, con quella maschera ferma, alla Buster Keaton. Lo ho amato anche come interprete cinematografico. Ma voglio dire che per cantare le sue canzoni devo fare uno sforzo di concentrazione, mi toccano le fibre più intime dell’anima, la voce mi si spezza per la commozione». «E sarà un’emozione nell’emozione - conclude Moni Ovadia, nato a Plovdiv, Bulgaria, nel 1946, milanese d’adozione e cittadino del mondo per vocazione culturale - cantare le sue canzoni a Trieste, città nella quale torno sempre davvero volentieri. La considero una delle “mie” città, di una bellezza struggente, dove ho tanti amici. Come qualcuno ricorderà, a questa che è una città simbolo della Mitteleuropa, porta sull’Est, ho anche dedicato nel ’98 uno spettacolo, “Trieste... ebrei e dintorni”».

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