martedì 11 aprile 2006

Hai voglia a dire, hai voglia di far finta di festeggiare. Le elezioni
non le abbiamo vinte. Se avessimo un pizzico, solo un pizzico del
senso della decenza e delle istituzioni che pure da piccoli ci avevano
insegnato ad avere, ammetteremmo l'ovvio: ci siamo mangiati otto punti
di vantaggio, per una fase finale della campagna elettorale confusa e
disastrosa sul tema del fisco. Oggi siamo nettamente sotto al Senato
(solo la tanto vituperata legge elettorale ci salva) e alla Camera si
vince per un niente. Il minimo che Piero Fassino dovrebbe dire, questo
segretario che ha portato i Ds ad un risultato umiliante, è: "Scusate,
mi dimetto". E il curato di campagna, bollito come non mai, Romano
Prodi dovrebbe aggiungere: "Sono vecchio e stanco, all'età mia si va
in pensione. Adesso ci vado". Massimo D'Alema, quello che a metà
pomeriggio di ieri annunciava una "vittoria schiacciante" dovrebbe
ammettere: "Non ne azzecco mai una". Alfonso Pecoraro Scanio, che ha
superato il quorum alla Camera di un 0,05, dovrebbe annunciare l'addio
alla politica. No. Questi qui dicono che hanno vinto. Non si rendono
conto di far passeggiare l'Italia sull'orlo di un baratro se non
ammettono quel che è realmente accaduto. Cioè che governeremo, se va
bene, grazie al voto di Giulio Andreotti, Emilio Colombo e Rita Levi
Montalcini. Non c'è stato neanche un passaggio di autocritica nella
lunghissima nottata elettorale. Neanche uno. Allora ve lo dico io,
semplice elettore ulivista: cari dirigenti, gestite al meglio il
passaggio che porta a nuove elezioni, tanto lì si va a finire. E se
osate ripresentarvi a quella tornata elettorale, vi prendiamo a
selciate, incapaci che non siete altro. Siete come l'Inter. Prodi è il
nostro Moratti, D'Alema il nostro Adriano. E pure se per noi tifa
tutta la bella gente (Paolo Mieli e Luca Cordero di Montezemolo, pure
loro abbiamo inguaiato), lo scudetto con voi non sarà mai nostro.
Il partito democratico, sì, subito. A una condizione. Non lo possono
fare loro. Non ci riproponete il parroco settantenne che voleva
festeggiare alle sei di pomeriggio. Non il marinaretto che vedeva
vittorie schiaccianti. Non il segretario del Partito comunista
torinese di trent'anni fa. Neanche il vecchio Signor Hood (e chi vuole
capire, capisca, riascoltando un De Gregori di trent'anni fa). E non
può decidere tutto un Ingegnere un po' decrepito che se na va sempre
in giro in barca ed è invidioso del Cavaliere. Il partito democratico
lo facciamo, ma lo facciamo noi: a questo punto la questione
generazionale diventa questione politica. Perché tra le ragioni di
questa finta vittoria numerica e vera sconfitta politica, dati i punti
di partenza, c'è anche di non aver suscitato un'idea nuova che è una.
E questo è un problema o no? Nel 2007 si finirà per rivotare e se non
ci inventiamo subito qualcosa le destre ci asfaltano e non ci
rialziamo più.


Mario Adinolfi

Nessun commento:

Posta un commento