giovedì 22 febbraio 2007

PORDENONE Omar Pedrini è uno che ha visto la morte in faccia ma può raccontarlo. Era la sera dell'8 giugno 2004. L’ex leader dei Timoria viveva un momento felice sia da un punto di vista professionale che personale. Quell’anno era stato a Sanremo con «Lavoro inutile» (premio per il miglior testo), aveva partecipato da protagonista al Concertone romano del Primo maggio, la strada da solista sembrava insomma lastricata di belle promesse. Quella sera un malore, lui credeva fosse una congestione, la sua compagna Elenoire Casalegno che lo costringe ad andare in ospedale. Responso: aneurisma aortico in atto, tre minuti per entrare in sala operatoria e riacciuffarlo prima che sia troppo tardi...

«Sono passati quasi tre anni - ricorda Pedrini, bresciano, classe ’67, che domani alle 21 comincia il suo primo vero tour da quell’incidente al Deposito Giordani di Pordenone - e sento che è arrivato il momento di ripartire. Ho fatto due anni di pausa, l’anno scorso è uscito il disco ”Pane burro e medicine», ma questo è il mio vero ritorno dal vivo, in una vera tournèe».

Una prima volta diversa da tutte le altre...

«Certo. L’estate scorsa ho rotto il ghiaccio con il Festivalbar e altre piccole cose. Ma ora riparto sul serio, con l’umiltà di chi vuole ricominciare da zero. Per questo ho scelto di fare all’inizio i club, che ti danno la possibilità di vedere la gente in faccia, da vicino. Voglio vedere se il pubblico si ricorda ancora di me. Non lo dico per falsa modestia. In questo mondo la gente si dimentica subito di chi non appare, non va in televisione, non fa notizia...».

Cosa ha fatto in questi due/tre anni?

«Mi sono preso una salutare pausa. Ho fatto qualche reading dei miei piccoli libri, ho fatto l’autore televisivo, e poi ho sempre continuato a insegnare all’università, alla Cattolica a Milano e a Brescia...».

Che cosa insegna?

«Ho al Dams un corso di contaminazione fra le arti, alla ricerca del filo che unisce la musica, la pittura, il cinema, la letteratura... E poi tengo un laboratorio sulla costruzione della canzone popolare: spiego ai ragazzi tutto il tragitto, dall’ispirazione fino alla canzone sul cd...».

Qual è quel filo?

«Mi piace immaginare l’arte come il più puro dei ghiacciai, e i corsi d’acqua che scendono a valle sono le varie forme di espressione artistica di cui l’uomo è capace. Il mio primo albu, nel ’91, s’intitolava ”Colori che esplodono”. Già lì parlavo di musica, ma anche di pittura, di letteratura...».

C’è differenza fra il pubblico dei concerti e gli studenti dell’università?

«In effetti poca. Mi chiamano ”il professore rock”. Ho fatto scoprir loro la Beat Generation. Il rock ha fama di musica ignorante, tipo sesso sudore ed energia. Ma nelle corde di tanti rockettari, anche illustri, c’è l’interesse per l’arte, per la cultura».

A Sanremo ci tornerebbe?

«Non sono snob, né faccio l’eremita. Se mi invitano da qualche parte ci vado, basta non scendere sotto certi livelli. Odio le cose volgari. Sanremo in Italia è uno dei pochi posti dove puoi presentare un lavoro. Non ci sono tante alternative».

È vero che porta il nome di Sivori?

«Sì, mio padre era un suo tifoso: l’ultimo artista del pallone. Ma il calcio ha perso la sua poesia. È stato avvelenato dal denaro. Io preferisco il rugby...».

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