domenica 12 ottobre 2008

ORNETTE COLEMAN ALL'OPP NEL MAGGIO '74


di Carlo Muscatello


La libertà entrò nel manicomio di San Giovanni il 15 maggio 1974 vestita di una splendida giacca patchwork. Pezzetti di velluto cuciti l'uno con l'altro. Di tutti i colori: rosso, giallo, verde, marrone, blu, viola... Quasi la rappresentazione visiva della musica che usciva a scatti nervosi dal sax di quel signore che vestiva la giacca in questione.

Lui era Ornette Coleman, classe 1930, americano del Texas, nero, uno dei maggiori innovatori della musica jazz degli anni Sessanta e Settanta. Il profeta del "free", quella forma di jazz che era nata fra New York e Chicago, quasi parallelamente alle grandi battaglie razziali di Martin Luther King e di Malcom X.

E in quel maggio del '74, in una Trieste che viveva un'altra grande battaglia di libertà e di dignità delle persone, e che negli anni precedenti aveva al massimo assistito ai primi vagiti del nascente pop italiano (la Premiata Forneria Marconi, le Orme, il Banco del Mutuo Soccorso...), il concerto di Coleman fu il primo di una serie abbastanza lunga che contribuì non poco ad abbattere il cancello che separava il vecchio frenocomio aperto nel 1908 dal rione di San Giovanni e dalla città di Trieste. E a dar corpo all'unica rivoluzione, quella basagliana, che la città ha visto nascere e compiersi.

In quella calda sera di maggio il jazzista statunitense propose con il suo quartetto una musica assolutamente libera, fuori dagli schemi conosciuti, basata quasi interamente sull'improvvisazione. Seguiva l'estro del momento. Ispirato da una situazione circostante che vedeva diverse centinaia di giovani appassionati di musica, attirati dal grande nome, mischiati a qualche decina di pazienti. I cosiddetti matti, a tratti divertiti ma forse più spesso spaesati dinanzi a quel che stava accadendo attorno a loro. In quel campetto di calcio che anni dopo lasciò il posto a una brutta costruzione ma quella sera era un luogo di libertà. Dove i presunti normali stavano fianco a fianco ai presunti matti.

Di più. Nei momenti in cui la frammentazione e l'irregolarità del ritmo e della metrica venivano portate alle estreme conseguenze, in una cavalcata musicale condotta da un sax quasi impazzito e supportata da una solida sezione ritmica, alcuni di quei matti ridevano, altri si chiudevano le orecchie con le mani. Rimpiangendo probabilmente il silenzio e la tranquillità che in quel parco, fino a quella sera, l'avevano fatta da padrone.

Sì, perchè dopo quella sera, nel parco e nel piccolo teatrino del grande ospedale psichiatrico, nulla fu più come prima. Poco meno di un mese dopo, il 12 giugno, arrivano gli Area del compianto Demetrio Stratos. Dopo l'album d'esordio,"Arbeit macht frei", ovvero "il lavoro rende liberi" (frase che stava scritta all'ingresso dei campi di sterminio nazisti...), era appena uscito il disco "Caution Radiation Area". Con dentro un brano intitolato "Lobotomia", dedicato a Ulrike Meinhof e caratterizzato da suoni ossessivi e lancinanti. Praticamente l'ideale per un concerto dentro a un manicomio...

Passa l'estate. E a settembre a San Giovanni arrivano prima il quartetto di Giorgio Gaslini (con il friulano Andrea Centazzo alla batteria) e poi Gino Paoli. Il jazzista milanese era l'inventore della "musica totale", l'utopia che diventava realtà di un genere in grado di abbattere barriere, schemi, luoghi comuni. Jazz che flirtava con la musica popolare e contemporanea, che si mischiava con generi "altri" per poi uscirne rigenerato.

Paoli, invece, monfalconese di nascita ma genovese d'adozione, era in quel periodo in una fase di mezzo, stretto fra i grandi successi degli anni Sessanta e la stagione che di lì a poco lo avrebbe riavvicinato al grande pubblico. A Trieste strinse rapporti anche di amicizia, con Peppe Dell'Acqua e altri, che lo avrebbero riportato tante volte, in questi trent'anni, a testimoniare la propria vicinanza alla rivoluzione basagliana.

Ma torniamo a quel 1974. A ottobre, nel teatrino dell'Opp, arrivano i napoletani Saint Just, trio capitanato da Jane Sorrenti, sorella dell'allora più famoso Alan Sorrenti. Nella stessa sera c'è anche Dodi Moscati, ricercatrice e cantante toscana appassionata di musica popolare (scomparsa pochi anni fa). A dicembre, la sera dopo il giorno di Natale, il palco del teatrino viene diviso da Franco Battiato e Juri Camisasca. Il primo non è ancora il cantante pop di successo che sarebbe diventato a partire dal '79 con album come "L'era del cinghiale bianco", "Patriots" e "La voce del padrone". Il secondo non è stato ancora colpito dalla crisi mistica che lo avrebbe poi portato a chiudersi per tanti anni in un monastero. All'epoca sono due artisti di nicchia, quasi d'avanguardia, amati solo da un pubblico di appassionati.

Li ritroviamo assieme, Battiato e Camisasca, nel parco dell'ospedale psichiatrico, poco più di due anni dopo. Nell'aprile del '77, assieme ad Alfredo Cohen e Alberto Camerini, in una "due giorni" che è una sorta di anteprima di quello che a settembre sarebbe stato il grande Reseau internazionale. Due giorni di musica e buone sensazioni, organizzati dai ragazzi di Canale 89, l'emittente radiofonica che in quei mesi era diventata un punto di riferimento per la parte più politicizzata della gioventù triestina.

Tanti altri musicisti, noti e meno noti, hanno suonato in tutti questi anni nel grande comprensorio di quello che poi sarebbe diventato l'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. Anche grazie a loro, e ai tanti giovani accorsi per vederli e sentirli, il processo di chiusura del manicomio - e di restituzione della grande area verde alla città - è stato portato a termine. Con la musica, con le parole, con il linguaggio universale dei suoni: forma d'arte popolare dinanzi alla quale siamo tutti uguali, senza distinzioni di alcun tipo.

«Sì, la musica è stata una costante nel nostro lavoro - ammette oggi Peppe Dell’Acqua, direttore del Dipartimento di salute di mentale di Trieste ed erede, assieme a Franco Rotelli, di Basaglia -, quei giovani che negli anni Settanta entravano per la prima volta a San Giovanni per seguire i concerti ci permisero di entrare in contatto con la città. E non a caso quel primo contatto avvenne con la parte più giovane della popolazione, quella priva di pregiudizi, aperta al confronto con l’altro. Ricordo i grandi concerti, ma anche le esperienze dei laboratori teatrali, il cinema...». La storia della rivoluzione basagliana è passata anche da lì.


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dallo spettacolo di Lella Costa e Paolo Fresu:


C'è stata molta musica nel parco dell’ospedale psichiatrico di Trieste negli anni del grande cambiamento. Molti concerti: gli Area, Gino Paoli che suonò nel teatrino del manicomio il giorno del suo 40esimo compleanno e da allora è tornato molte volte, Giorgio Gaslini una sera di settembre, poi Franco Battiato, poi a novembre il primo spettacolo di Dario Fo.

Ma il primo concerto importante fu a fine maggio del ’74, quando nel parco di San Giovanni, manicomio di Trieste, suonò Ornette Coleman. Lui se lo ricorda ancora benissimo. «It was really very unique, molto speciale. Non mi ero mai trovato in un ambiente così particolare. Non avevamo la minima idea di chi potesse esserci in quell’ospedale, ci siamo trovati fra tanta gente di tutti i tipi e certo non avresti potuto dire, guardandoli in faccia, questo è malato e questo no».

Coleman in quartetto, in manicomio: un’idea nata con il Club triestino degli Amici del jazz. Il tramite un personaggio straordinario, un pittore olandese che Coleman ricorda come «un uomo grande e grosso che viveva in barca, un artista molto bravo che faceva quadri sempre non più grandi di un foglio A4». L’Olandese grande e grosso, forse volante, racconta a Coleman di aver incontrato in manicomio artisti di valore e persone interessanti, sono quelli del «Laboratorio P». È un reparto appena svuotato dove operatori, ricoverati, teatranti, pittori e scultori guidati da Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia «fanno cose». Oggi si direbbe «creano eventi». Ma allora era diverso.

«Quando l’olandese mi ha proposto di andare a suonare lì, mi sono detto: ”Si può fare! Magari si può fare qualcosa di buono, perché la musica fa sentire meglio. E ho accettato».

«In realtà non immaginavo affatto la situazione in cui poi ci siamo trovati». Nel prato del campo sportivo, circondato dai reparti «non c’era un vero palco, solo una pedana e noi suonavamo con la gente che andava e veniva intorno e vicino a noi, con l’aria di pensare vediamo chi sono questi artisti, cosa fanno. Era davvero molto bello, era real audience, un vero pubblico che si muoveva in modo consapevole, attento, coinvolto. Poi è venuta fuori quella signora, di lato rispetto a noi, dall’ombra, senza che nessuno la controllasse, suonando la fisarmonica. Si muoveva in modo molto tranquillo, convinta che non ci fosse nulla di sbagliato in quello che stava facendo, quasi professionale, suonava qualcosa che mi sembrò una canzone popolare. Mi ricordo che ho pensato questa è musica, let’s join her, andiamole dietro, e così abbiamo cominciato a suonare ciò che suonava lei».

Quella signora che è salita sul palco con la fisarmonica si chiama Rosetta. Ha una cinquantina d’anni, più di 20 passati in manicomio. Cantava con una bella voce da soprano e la si vedeva spesso passeggiare nei viali del manicomio e per il quartiere suonando la fisarmonica o l’armonica a bocca. Nei mesi del laboratorio «P», Rosetta, era stata una protagonista: aveva raccontato lei la storia del cavallo Marco che tirava il carretto con la biancheria sporca dei reparti, e da lì era nato il cavallo azzurro che poi ha girato il mondo, con una canzone composta da Rosetta insieme con Giuliano Scabia.

Gli operatori dell’ospedale sono un po’ preoccupati. Racconta Maria Grazia Giannichedda: «Noi che volevamo creare “incontri ravvicinati” tememmo di aver osato troppo nel non volere nessuna mediazione, nessun controllo psichiatrico in quello spazio dentro il manicomio che volevamo fuori dalle sue regole».

Ornette Coleman è meno preoccupato. «Io mi sentivo molto bene, molto normale in quella situazione un po’ da fantascienza, e così la cosa ha funzionato. Ricordo che abbiamo suonato almeno un’ora e mezzo, più del solito, mi piaceva quel clima di libertà, questo essere liberi, tutti, in qualunque condizione si fosse. Lo so che all’indomani ognuno sarebbe ritornato al suo posto, ma in quel particolare momento era evidente che eravamo tutti normali in quella situazione così speciale. Questo la musica può farlo, io credo che sound is the science of feeling, la scienza del sentire. Credo davvero che ho capito delle cose di me stesso quella volta. All’epoca, ero anch’io molto matto, poi sono diventato più maturo, ho capito anche su di me che la musica fa bene. Mi pare che proprio poco dopo Trieste sono stato in Marocco, dove ho incontrato i musicisti Joujouka, un gruppo che mi ha impressionato molto, che usava una musica antica che cura la follia, e io credo che questo sia possibile». Coleman ricorda anche un concerto al Paolo Pini, il grande manicomio di Milano. «Credo che quel concerto fu prima di Trieste, ma era un’altra cosa, lì io ho suonato per i medici, c’erano file di medici e file di malati, composti e seduti, tutto molto controllato e usuale, un concerto di beneficenza come mi è capitato altre volte».

Ornette Coleman, oggi ha 78 anni ed è un musicista celebrato che non smette di sperimentare. La signora Rosetta vive in un appartamento nel parco di San Giovanni con alcune signore sue coetanee.

L’ingresso a quel concerto con Orette Colemann, Norris «Sirone» Jones al contrabbasso, James Ulmer alla chitarra elettrica, Billy Higgins, alla batteria e l’intervento straordinario di Rosetta Loiacono alla fisarmonica era a offerta libera. Fu un grande successo di pubblico ma non si riuscì a tirare su la cifra che serviva a pagare le spese, 180 mila lire.


 

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