domenica 31 gennaio 2010

DALIA GABERSCIK


"Mia madre e io siamo felici che sia proprio Trieste, dopo Milano, la seconda città che ricorda Giorgio Gaber intitolandogli una via. Lui amava molto la città di suo padre, nonno Guido. E ogni volta che ci tornava, beh, per lui era un po’ come tornare a casa...».

Parla Dalia Gaberscik, unica figlia dell’artista milanese di origini triestine, scomparso il primo gennaio 2003. Domani non potrà partecipare alla cerimonia di intitolazione del tratto di Viale XX Settembre antistante il Politeama Rossetti - che diventa così Largo Giorgio Gaber - perchè impegnata in queste settimane fra Milano, Roma e Sanremo: la sua ”Goigest” cura l’ufficio stampa del Festival di Sanremo. «Mi dispiace molto di non poter venire - dice Dalia, classe ’66 -, ma ci sarà mia madre, Ombretta Colli, che di solito si muove raramente ma a questa cosa tiene in modo particolare».

A casa vostra il triestino era il nonno...

«Sì, un personaggio incredibile: casinista, brontolone, eccentrico. Da bambina lo vedevo tanto, lui è morto nel ’78. Era venuto a Milano nei primi anni Trenta, faceva l’ufficiale. Era fascista. Poi si è sposato e ha messo su famiglia. Mio zio Marcello è nato nel ’33, mio padre nel ’39. Ho ancora una sua fotografia col nonno in divisa fascista. Poi ha lavorato alla Fiat ed è stato per tanti anni dirigente di una ditta di registratori di cassa».

La sua famiglia era invece rimasta a Trieste?

«Sì, dove c’erano le mitiche zie triestine. Tutte molto eccentriche per l’epoca, un po’ matte. Avevano figli pur non essendo sposate, una andò a fare la croupier a Sanremo. Recentemente ho ritrovato dopo tanti anni un mio cugino triestino, Alessandro Cubi, ovviamente su Facebook...».

Le origini del cognome?

«Austriache, anche se non so quando la famiglia di mio nonno arrivò a Trieste. Poi il cognome fu cambiato: alcuni in Gaberscec, altri in Gabrielli. Mio padre, invece, lo ”accorciò” all’inizio della carriera artistica».

Cosa diceva di Trieste?

«Amava molto la città. Ne apprezzava il fermento culturale, la vivacità, le persone stimolanti, l’ottima qualità della vita. E poi era molto colpito dall’organizzazione del Rossetti, che considerava fra i migliori teatri a livello nazionale».

Lei lo ha mai accompagnato?

«Qualche volta, per qualche spettacolo. E ho notato che effettivamente lui era a suo agio. Per uno che stava in tour duecento giorni all’anno, la città che lo ospitava diventava importante. In alcune si annoiava, a Trieste mai. E poi c’è un fatto...».

Prosegua.

«Mio padre era uno che andava a dormire alle quattro del mattino, si svegliava nel primo pomeriggio, poi andava in teatro per le prove e per lo spettacolo. Stop. Ecco, una delle ultime volte che è venuto a Trieste, forse addirittura l’ultima <CF101>(novembre ’98, spettacolo ”Un’idiozia conquistata a fatica” - ndr)</CF>, si è portato dietro il suo pastore tedesco. E ci ha fatto delle passeggiate, cosa rarissima...».

La Fondazione Gaber?

«L’abbiamo formata subito dopo la scomparsa di mio padre, per tutelare e divulgare la sua opera. Lui ha sempre preferito i teatri, rifiutando ottime proposte dalla televisione, dai palasport. Ma così facendo non ha intercettato il grande pubblico. I giovani lo scoprono ora con i dvd, con il Festival Gaber di Viareggio, con il festival Milano per Gaber, con i dischi e gli spettacoli di Neri Marcorè ed Enzo Iacchetti. Che fra l’altro debutta stasera al Teatro Nuovo di Milano, assieme ai triestini della Witz Orchestra...».

Domani appuntamento alle 18 per la cerimonia di intitolazione, alle 19 s’inaugura la mostra ”Qualcuno era... Giorgio Gaber”, alle 20.30 al Rossetti gli spettacoli ”E pensare che c’era il pensiero” e ”Un giorno in arancione”.

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