sabato 30 gennaio 2010

LARGO GIORGIO GABER


Martedì la città di Trieste ricorda a sette anni dalla scomparsa Giorgio Gaber. Lo fa intitolandogli quel tratto di viale XX Settembre su cui si affaccia il Politeama Rossetti. Che diventa così Largo Giorgio Gaber (nuovo indirizzo del teatro), da cui parte Via Giorgio Strehler.

Per l’occasione il Comune (assieme al Rossetti e alla Fondazione Gaber) organizza una giornata-tributo al grande artista milanese di origini triestine. Si comincia alle 18 con la cerimonia di intitolazione, presente la senatrice Ombretta Colli, vedova dell’artista scomparso, e con l’omaggio di Maddalena Crippa, Anna Maria Castelli e degli Oblivion. Alle 19 nel foyer s’inaugura la mostra ”Qualcuno era... Giorgio Gaber”; alle 20.30 al Rossetti gli spettacoli ”E pensare che c’era il pensiero” di Gaber-Luporini, regia di Emanuela Giordano, e ”Un giorno in arancione” di Gianni Gori.

Insomma, una sorta di ”Gaber day” che suggella il legame speciale fra l’artista e la città di suo padre. Sì, quel Guido Gaberscik, gran suonatore di fisarmonica che trasmise al ragazzo l’amore per la musica. Che storia, la sua. Comincia a suonare la chitarra a otto anni, all’inizio per emulare il fratello maggiore, poi per esercitare quella mano sinistra ferita dalla poliomelite. Ascolta jazz e studia ragioneria nella Milano del dopoguerra, dove la famiglia si era trasferita da Trieste pochi anni prima della sua nascita, avvenuta il 25 gennaio 1939.

Comincia con un gruppetto jazz in cui suonava anche un certo Luigi Tenco, ma nel frattempo esplode il rock’n’roll. Con Enzo Jannacci - con cui poi fonda il duo ”I due corsari” - accompagna Celentano nelle prime esibizioni. Negli anni Sessanta arriva il grande successo, anche televisivo: Sanremo, il Festival di Napoli, Canzonissima...

Nel ’65 il matrimonio con Ombretta Colli, nel ’66 la nascita della figlia Dalia. Nel ’69 e nel ’70 le tournèe teatrali (con tappa anche a Trieste) con Mina. Fu lì, confessò anni dopo, che maturò la scelta della sua ”seconda vita artistica”. Erano tempi particolari, di cambiamento, riflessione, impegno politico. ”Il signor G” nasce nel ’70, primo di una lunga serie di spettacoli di teatro-canzone, con cui l’artista scandaglia le umane debolezze, i tic, i timori, le speranze, i fallimenti. Fustigando costumi e criticando sempre il consumismo, l’omogeneizzazione della cultura, la massificazione dei gusti.

Tutti i suoi spettacoli (”Far finta di essere sani” e ”Anche per oggi non si vola”, ”Libertà obbligatoria” e ”Polli d’allevamento”, ”Anni affollati” e ”Parlami d’amore Mariù”...) sono passati dal Rossetti. In tutto 33 repliche, tutte contrassegnate da un rapporto di profondo e reciproco affetto fra il cantore saggio del nostro eterno disagio esistenziale e il pubblico della città di suo padre.

L’ultima sua venuta a Trieste fu la più triste. ”Un’idiozia conquistata a fatica”, novembre del ’98, volto già segnato dalla malattia. Nell’intervista (l’ultima di una lunga serie) ci aveva fatto capire che si trattava del suo ultimo spettacolo. E così fu, visto che poi ”Gaber 1999/2000” fu solo un aggiornamento del precedente.

Sul palco del ”suo” Rossetti, alla fine di quello spettacolo, lo ricordiamo sudato, visibilmente affaticato, ma felice. Felice del fatto che la gente cantasse in coro le sue vecchie canzoni che non faceva quasi mai mancare fra i bis: ”La ballata del Cerutti” e ”Porta romana”, ”Torpedo blu” e ”Barbera e champagne”, e ancora ”Non arrossire” («Questa - disse - è del ’60. E non era nemmeno la prima...»).

Prima e soprattutto dopo quel tristissimo primo gennaio 2003, la figura di Gaber fu ”tirata per la giacchetta” da destra e da sinistra. Lui che si vantava di non votare ”dal ’74” lasciò in quello spettacolo - e nel disco del 2001 ”La mia generazione ha perso”, seguito nel 2003 dall’album postumo ”Io non mi sento italiano” - il testamento importante di un uomo che, con la sua acuta indagine sui disagi esistenziali della nostra epoca, ha lasciato un’impronta nella cultura italiana del Novecento.

In quell’ultima intervista ci aveva detto: «Eravamo rimasti al pensiero, alla preoccupazione di un’assenza totale di pensiero. Che ora è stata sostituita da... un’idiozia conquistata a fatica. Quindi andiamo peggio, perché la situazione della vita è peggiorata. Non dal punto di vista politico, su cui si potrebbe comunque fare una lunga serie di considerazioni. Andiamo peggio perché segnali positivi dall’umanità non ne arrivano. Prendo atto dello scadimento generalizzato della qualità delle persone. Quindi diventa difficile anche non sentirsi coinvolti in questa idiozia».

Un fenomeno che Gaber collegava all’espansione del mercato, al consumismo. «Il mercato condiziona la nostra vita e in tal senso annienta la consapevolezza e la coscienza. Nello spettacolo c’è dunque una parte dedicata ai danni causati dal mercato, senza scordare che è anche quello che garantisce la ricchezza, il benessere».

Dalla politica stava alla larga. «Nei miei spettacoli, a parte alcuni rari ed espliciti accenni, la politica non viene mai affrontata in modo diretto. Sollecitano invece la mia indignazione, che si traduce poi in violente invettive o in dolorose riflessioni ironiche, gli appiattimenti culturali, l’assenza di pensiero, il conformismo, le ingiustizie, i soprusi, le prevaricazioni di ogni tipo, sempre legate alla stupidità degli individui che non finiscono mai di stupirmi per il loro egoismo e per il loro livello di coscienza infinitamente basso».

È anche, e vogliamo sperare soprattutto questo, il Gaber che Trieste ricorda martedì.

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