mercoledì 23 giugno 2010

GIORGIO GASLINI
MILANO Se gli ricordi ”quel” concerto, un lampo sembra attraversargli gli occhi. La memoria è lucidissima. Giorgio Gaslini torna indietro di trentasei anni, a quel 4 settembre del 1974, parco del manicomio triestino di San Giovanni...
«Un giorno di quell’estate - ricorda il musicista milanese, che ha girato la boa degli ottant’anni nell’ottobre scorso - mi telefona Franco Basaglia e mi dice: ho aperto i cancelli, qui ha già suonato Ornette Coleman, vieni anche tu a fare un concerto. Gli dissi solo: arrivo. Chiamai i musicisti del mio quartetto di allora e partimmo».
Conosceva Basaglia?
«Non personalmente. Seguivo il suo lavoro, lo stimavo, ma fino a quel giorno non ci eravamo mai incontrati di persona. Quello fu il primo incontro. Per me era un mondo tutto da scoprire».
Cosa la colpì?
«Ricordo l’arrivo a Trieste, il parco splendido, i viottoli fra gli alberi, un fiume di gente, giovani e malati assieme, non si capiva quali erano i ”matti”, quali i medici, quali gli appassionati di musica richiamati dal concerto. Capii che eravamo all’interno di una grande rivoluzione civile».
Il concerto?
«Allora suonavo con Bruno Tommaso al contrabbasso, Gianni Bedori (poi noto come Johnny Sax) al sassofono, il friulano Andrea Centazzo alla batteria. Il palco era poco più di una pedana, al centro di un campo sportivo. Eravamo circordati dalla gente anche sul palco. Ricordo una giovane che mi prese amorevolmente il braccio proprio mentre suonavo. Un altro sosteneva che io l’avevo fregato tempo prima perchè aveva dovuto pagare quattromila lire per assistere a un mio concerto. Fu una delle esperienze che più mi hanno segnato in tanti anni di carriera».
In quegli anni lei scrisse ”Musica totale”.
«Mi fu chiesto da Inge Feltrinelli. Lo scrissi in venti giorni, attingendo alla mia esperienza diretta. Che è poi la storia della mia vita...».
Ci aiuti a ricordarla.
«Cominciai a suonare il pianoforte classico a sei anni. Poi la guerra portò la mia famiglia a sfollare in Brianza, dove un’orchestrina locale mi fece conoscere il primo jazz, le musiche di Glenn Miller».
L’Africa?
«Mio padre era un celebre africanista, la nostra casa era piena di strumenti strani ma anche di dischi di Josephine Baker portati da Parigi. Fu lui che mi spinse verso l’improvvisazione. E poi non va dimenticato il ruolo di una balia emiliana che mi cantava le canzoni di lotta e di lavoro della sua terra».
Vuol dire che la sua ”musica totale”...
«Sì, la ”musica totale” nacque mettendo assieme classica e jazz, suoni africani e canti popolari. Me ne resi conto solo anni dopo, quando quei fili si erano già collegati nel mio modo di suonare».
La Milano del dopoguerra?
«Vitalissima. Tutto sembrava possibile, nonostante le difficoltà. Io sapevo solo che volevo suonare. Il primo lavoro lo trovai in un cinema di Porta Vittoria, vicino casa mia: allora fra un tempo e l’altro del film c’era un musicista che suonava dal vivo. Poi mi chiamarono alla radio, la vecchia Eiar, e poi ancora l’Orchestra nazionale italiana».
La pausa di studio?
«Alla fine degli anni Cinquanta decisi di iscrivermi al Conservatorio, corso di composizione. Mi rendevo conto che c’era una fase accademica da percorrere, per poter dirigere e scrivere musica. Ma già sapevo che sarei presto tornato al jazz, alla mia natura, al rapporto diretto con il pubblico».
Il cinema?
«Era il ’61. Tramite Nicola Arigliano avevo conosciuto Mastroianni, che fece ascoltare delle mie musiche a Michelangelo Antonioni. Il maestro stava girando ”La notte” a Milano. Ricordo che una sera mi chiamò, voleva sentire altre cose mie. Per farla breve fui ingaggiato anche come attore, per suonare dal vivo le musiche del film. Vincemmo il Nastro d’argento, ma io lo seppi dalla tivù. E poi scrissi le musiche per una quarantina di film».
La sua prima volta in America?
«In quegli stessi anni, invitato da John Lewis del Modern Jazz Quartet. Mi rendevo conto di essere nella patria del jazz, che è musica neroamericana, nata per cantare la condizione dei neri d’America. Ebbi il privilegio di assistere alla nascita delle ultime idee-forza del jazz americano: il free jazz di Ornette Coleman, Cecil Taylor, John Coltrane, artisti che seppero liberare il jazz da pastoie e formalismi. Erano gli anni della fantasia e della creatività al potere».
E arriviamo all’elemento dell’impegno.
«Che nel jazz è sempre stato fondamentale. Io ho sempre avuto a cuore l’impegno civile, l’idea di giustizia sociale. Negli anni Sessanta e Settanta avevo un rapporto stretto con il Movimento studentesco. Tenni molti concerti nelle fabbriche occupate. Era il mio modo di testimoniare una scelta di campo».
L’Italia di oggi?
«È ovvio che mi piace poco. Ma sono troppo concentrato sulla serietà del mio lavoro quotidiano, che è quel che conta. Assieme alla solidarietà fra liberi pensatori e artisti: una sorta di ”nostra” Italia dentro l’Italia vera, in attesa che prenda piede questo nuovo umanesimo che sta nascendo».
Dove lo coglie?
«Nei giovani. Almeno in quelli che non portano il cervello all’ammasso. Oggi i giovani non fanno più notizia, ma è solo questione di tempo. La storia riparte sempre, e lo fa con le nuove generazioni».
Oggi Milano la premia con l’Ambrogino d’oro.
«Non posso nascondere che si tratta di una grande soddisfazione, perchè arriva dalla mia città.
Sarà una premiazione singola, ho invitato i miei amici ”liberi pensatori e artisti”. Nella motivazione si ricorda che ho portato la musica italiana e l’immagine di Milano in tutto il mondo: è vero, in tutti questi anni ho tenuto concerti in oltre sessanta paesi. E di ognuno ricordo qualcosa...».

Nessun commento:

Posta un commento