JOHN LENNON 30
Oggi sono trent’anni che John Lennon è stato ucciso. Ma a pensarci bene, in tutto questo tempo, il mondo non si è mai sentito orfano della musica, delle idee, delle speranze che il più geniale dei quattro Beatles ha saputo esprimere nella sua breve vita.
Perchè se Elvis Presley - distrutto a quarantadue anni, nel ’77, da cibo, farmaci, droghe ed eccessi vari - è stato l’inventore e il re del rock, Lennon con i ”Fab Four” (nel 2001 è morto anche George Harrison, dunque oggi sono in vita solo Paul McCartney e Ringo Starr) ha cambiato musica e costume del Novecento.
Aveva appena quarant’anni, quella sera dell’8 dicembre 1980 quando il destino gli mise davanti la follia omicida di Mark David Chapman. C’era stato un prologo. Poche ore prima dei cinque colpi di pistola, il suo assassino gli strinse la mano e si fece autografare una copia del suo album ”Double Fantasy”, appena uscito. Davanti al Dakota Palace, l’abitazione newyorkese di Lennon affacciata su Central Park, c’era anche un fotografo, tale Paul Goresh, che immortalò la scena in uno scatto rimasto storico: l’assassino e la sua vittima.
Chapman - che in tutti questi anni ha chiesto più volte la libertà provvisoria, ma è ancora in galera - quella sera rimase in attesa per quattro ore. Aveva con sé una copia del ”Giovane Holden”. Poco prima delle 23, quando vide l’ex Beatle rientrare assieme a Yoko Ono, lo chiamò e gli disse: «Ehi, mister Lennon. Sta per entrare nella storia...».
Quattro dei cinque proiettili calibro 38 colpirono l’artista, uno trapassò l’aorta. Lennon fece qualche passo, prima di cadere. Poi l’inutile corsa al Roosevelt Hospital, dove fu dichiarato morto alle 23.09. Non erano ancora tempi di internet, facebook e twitter e compagnia delirante, ma la notizia fece il giro del mondo in pochissimo tempo, suscitando ovunque autentica commozione. I primi flash d’agenzia, i notiziari radio e tv, i raduni spontanei di giovani e meno giovani nelle strade di mezzo mondo...
C’era forse la consapevolezza, fra milioni di persone, che quella morte segnasse per davvero la fine di un’epoca. L’epoca della musica che aveva l’illusione di poter cambiare il mondo, incrociandosi con i movimenti giovanili nati negli anni Sessanta e Settanta. Se Woodstock, nell’agosto del ’69, aveva chiuso la stagione della controcultura giovanile, il sogno della ”nazione alternativa”, di un mondo diverso e migliore grazie anche alla musica, la morte di Lennon (che nel ’70 aveva cantato ”The dream is over”, il sogno è finito, verso riferito solo in prima battuta allo scioglimento dei Beatles...) chiude la saracinesca ai sogni, agli ideali e se vogliamo alle utopie dei due decenni precedenti. E milioni di persone in tutto il mondo lo capirono perfettamente.
Perchè John Lennon non fu soltanto il protagonista - soprattutto assieme al suo alter ego creativo McCartney - di quella straordinaria avventura chiamata Beatles, che in soli otto anni di produzione discografica, dal ’62 di ”Love me do” al ’70 di ”Let it be”, ha cambiato dalle fondamenta la musica, il costume e se vogliamo anche la cultura della seconda metà del cosiddetto secolo breve.
Soprattutto dopo lo scioglimento del gruppo, il suo sincero impegno civile e politico, non solo con i ”bed in” e le manifestazioni per la pace, ne fecero anche un protagonista della vita pubblica. E l’essersene andato così presto lo ha reso ”forever young”, per sempre giovane, quasi immortale. Risparmiandogli i rischi di una sicura decadenza fisica e di un possibile (nel suo caso, forse improbabile...) tramonto creativo.
Non a caso ieri il Corriere della Sera proponeva in prima pagina una (triste) elaborazione fotografica al computer di un ”Lennon settantenne”: stempiato, grigio, con le rughe. E in questi giorni si è diffuso l’esercizio di immaginare (”Imagine”...) questo ”Lennon settantenne” ancora capace di scrivere musica immortale e nel contempo mobilitato contro l'impegno bellico in Afghanistan e in Iraq, nella migliore delle ipotesi, oppure ridotto a fare l’ospite speciale o persino il giudice di un ”talent show”, nella peggiore di queste ipotesi.
Chissà come sarebbero andate le cose. Di certo, allora, di quei quattro, Lennon era forse il più creativo e geniale, di certo il più carismatico e trasgressivo e politico, in anni in cui il mondo sembrava dovesse cambiare radicalmente di lì a poco. Sappiamo che non è andata così. O meglio: il cambiamento non è andato nella direzione allora sperata.
Ma la grande importanza del poeta di ”Imagine” e dei quattro ragazzi di Liverpool non è mai stata in discussione. E in questa fine 2010 del doppio anniversario (oggi il trentennale della morte e due mesi fa, il 9 ottobre, i settant’anni dalla nascita), una discografia perennemente in crisi ha tratto ossigeno dall’ennesima ristampa di tutto il catalogo rimasterizzato dei Beatles e di John Lennon da solista. I milioni di copie vendute e quei dischi di nuovo ai vertici delle classifiche di vendita, tanti anni dopo, sono la prova migliore di quel che stiamo scrivendo.
Oggi John Lennon verrà ricordato in tutto il mondo. A Londra (dove un canale tv trasmetterà ”The day John Lennon died”, documentario sulle sue ultime ore, girato dal filmaker britannico Michael Waldman), nella sua Liverpool, nella sua New York. Dove dal 9 ottobre 1985, giorno del suo quarantacinquesimo compleanno, quel pezzetto di Central Park dinanzi al Dakota Palace - nell’Upper West Side - si chiama ”Strawberry Fields”, proprio come una delle tante, inarrivabili canzoni dei Beatles.
Lì, ogni giorno, c’è qualcuno che si ferma attorno al grande mosaico circolare di pietre grigie e nere che formano per terra la parola ”Imagine”. E qualche giovane o vecchio ragazzo con la chitarra strimpella le canzoni dei Beatles - ormai musica classica - con un cappello appoggiato per terra. Oggi quell’area sarà piena di fiori e di candele accese. Per ricordare un grande del Novecento.
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