lunedì 13 dicembre 2010

PASOLINI / VISCA

E' stata la prima giornalista ad accorrere sulla scena del delitto. Era la mattina del 2 novembre 1975. Quel corpo straziato all’idroscalo di Ostia era quello di Pier Paolo Pasolini, il poeta e regista di Casarsa. Lucia Visca allora era una giovanissima cronista agli esordi. Oggi, dopo tanti anni trascorsi nei giornali, ha trovato il tempo e la voglia di scrivere quella storia. Ne è venuto fuori un libro: ”Pier Paolo Pasolini, una morte violenta - In diretta dalla scena del delitto, le verità nascoste su uno degli episodi più oscuri della storia italiana” (Castelvecchi Editore - pagg 149, euro 15). Verrà presentato oggi alle 11, a San Vito al Tagliamento, alla presenza dell’autrice.

Visca, qual è il primo ricordo di quel 2 novembre '75?

«Quel cartellino di lavanderia sulla camicia di Pier Paolo Pasolini. Un minuscolo rettangolo di carta gialla. Spiccava sulla stoffa intrisa di sangue. Con l'inchiostro indelebile c'era scritto ”Pasolini”. Una letta veloce e quel cadavere massacrato cambiò la storia del Novecento».

Da chi fu avvertita?

«Da un brigadiere, lo stesso che di solito mi aggiornava su ogni avvenimento di nera, anche minimo, che avveniva sul litorale romano».

Che immagine si presentò ai suoi occhi?

«Un massacro. Un cadavere bocconi nel fango, del quale restava poco di forma umana. Al momento della scoperta lo avevano scambiato per un sacco di immondizia, Quando girarono il corpo, se possibile, l'immagine era peggiore. Il volto sfigurato, senza lineamenti. Un grumo di sangue che raccontava la sofferenza di un uomo. Non era stata una morte improvvisa: il corpo testimoniava una lenta e dolorosa agonia sotto i colpi degli assassini».

Chi c'era all'inizio sul posto? Chi arrivò dopo di lei?

«Qualche poliziotto, la famiglia che aveva trovato il corpo, i Lollobrigida, molti curiosi e due squadrette di calcio in attesa di giocare la partita della domenica. Che dopo, purtroppo, giocarono, distruggendo ogni traccia sul terreno dove non erano stati fatti rilievi accurati. Dopo l'identificazione arrivarono tutti: la mitica squadra mobile di Fernando Masone, i giornalisti di grido, gli amici di Pasolini. Arrivò Ninetto Davoli e fu il momento peggiore, quando l'identificazione del cadavere divenne ufficiale e, come disse Moravia qualche giorno dopo alla commemorazione, il mondo pianse un poeta».

Ci dica degli indizi che furono trascurati.

«Vicino al corpo c'erano tracce che vennero distrutte, come dicevo. C'era stata e non fu colta la possibilità di calcolare quante auto erano state su quel terreno quella notte. Si sarebbe potuto capire, come poi si sospettò, se era passato anche qualcuno in moto, la misteriosa moto che compare in quasi tutti i grandi delitti dell'epoca a Roma».

Cosa accadde dopo il ritrovamento?

«Una gran confusione perché ci volle tempo prima che polizia e carabinieri cominciassero a parlarsi. Prima che si sapesse che nella notte i carabinieri avevano arrestato Pino Pelosi, immediatamente reo confesso dell'assassinio, alla guida dell'auto del poeta. Furono perfino trascurati, allora e per anni, alcuni oggetti ritrovati nella macchina».

A distanza di 35 anni che idea si è fatta dell'omicidio?

«Qualcuno doveva far pagare a Pasolini qualcosa. Doveva dargli una lezione. Non sono certa che l'obiettivo fosse la morte, potrebbe anche essere stata l'esito di un violento pestaggio. Certo è che Pasolini non è stato ucciso da una sola persona. Un ragazzino allora gracile e sottopeso non avrebbe potuto sopraffare da solo un uomo in forma e allenato. Forse Pelosi fu solo l'esca. Forse lì c'era qualcuno che aveva organizzato l'agguato».

Nel libro lei parla di tre ipotesi.

«Non sono ipotesi mie. Ero e resto una cronista. Credo nel giornalismo che riporta i fatti e semmai ci ragiona sopra. Nel caso di Pasolini ho riportato le ipotesi che si sono accreditate negli anni: un complotto di Stato o quantomeno dei servizi segreti deviati, una vendetta della malavita compromessa con ambienti neofascisti, una vendetta di piccoli balordi di quartiere decisi a punire Pasolini ritenendolo corruttore di ragazzini».

Chi aveva interesse a far tacere Pasolini?

«Purtroppo molti, e molti sono gli indizi. Pasolini era un intellettuale di grande impegno civile. In forza del suo anticonformismo, basta rileggere gli ”Scritti corsari” che pubblicava sul Corriere della Sera, aveva intuito tutti i complotti e tutte le insidie degli anni Settanta del secolo scorso. Stava lavorando sull'Eni di Eugenio Cefis, ritenuto il vero fondatore della Loggia P2. Approfondiva i legami fra il terrorismo nero e la Banda della Magliana, ai primi vagiti, che si finanziavano con il traffico di droga».

La pista omofoba?

«C'è anche quella. C’era un interesse, diciamo così, ”basso” di piccola malavita, che aveva in odio gli omosessuali già allora. Rileggendo le ultime settimane precedenti alla morte gli indizi sono molti. Basti pensare al furto delle ”pizze” di ”Salò e le 120 giornate di Sodoma” e all'ossessione di Pasolini di poterle ritrovare».

Perchè il libro arriva solo adesso?

«Perché adesso ho avuto il tempo di scrivere il pezzo che non scrissi allora. E anche perché dopo non ci sarebbe stato più tempo per il lavoro di cronista. Sono ormai convinta che i misteri dell'assassinio di Pier Paolo Pasolini siano materia per gli storici».

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