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lunedì 2 dicembre 2013
IL COLPO DI STATO DI BANCHE E GOVERNI, libro di Gallino
«Quando arriva l’uragano, è dura per tutti. Ma se hai costruito per tempo una casa in cemento armato, avrai una certa quantità e un certo tipo di danni. Se invece vivi in una casupola fatta di lamiera, è chiaro che rischierai di venir spazzato via...».
Luciano Gallino, uno dei più importanti sociologi italiani, professore emerito all’Università di Torino, dov’è stato per oltre trent’anni ordinario per l’appunto di sociologia, legge così, attraverso questa metafora, una crisi apparentemente senza fine. Che secondo alcuni non è una crisi mondiale, ma soltanto o perlomeno soprattutto italiana.
«Fuor di metafora - spiega il docente, che ha appena pubblicato per Einaudi il volume “Il colpo di stato di banche e governi, L’attacco alla democrazia in Europa” (pagg, 344, euro 19) -, la nostra economia è di latta. In Italia da anni abbiamo assistito all’incapacità di realizzare politiche industriali e progetti adeguati alla fase storica. Nel frattempo la Germania si è attrezzata per la bisogna, dunque soffre di meno di una situazione oggettivamente difficilissima».
Perchè dopo oltre due anni di recessione, e una caduta dell’economia del nove per cento dal momento simbolico del fallimento di Lehman Brothers, la zona euro dà segnali di ripresa e crea posti di lavoro. Anche in Spagna, in Portogallo, in Irlanda. Mentre l’Italia è drammaticamente ferma al palo.
Professore, quando è cominciata questa crisi?
«È una crisi che parte da lontano. Già negli anni Settanta il sistema produttivo dei paesi sviluppati dava segni di rallentamento. Per ovviare al quale, governi e società finanziarie statunitensi ed europei hanno intrapreso, a partire dagli anni Ottanta, una forte campagna di finanziarizzazione dell’economia».
I cosiddetti mutui facili?
«Sì, soprattutto negli Stati Uniti in quegli anni si è cominciato a erogare milioni di prestiti e mutui che tutti venivano sollecitati a sottoscrivere. Anche quanti non avevano ragionevolmente la possibilità di farvi fronte».
La ricetta ha funzionato?
«Per alcuni anni. Poi ha mostrato i suoi limiti, anche perchè si trattava di tutto un sistema di crediti ingenti, concessi con estrema disinvoltura».
Quand’è saltato tutto?
«C’erano stati segnali allarmanti già nel 2003, segnalati da alcuni giornali e persino dalla Fbi. Ma nessuno ha datto loro retta. Poi tutto il sistema entra drammaticamente in crisi nel 2007. E quando nel 2008 falliscono le grandi banche, i governi intervengono pompando soldi pubblici per salvare banche private».
Altre cause della crisi?
«Proprio perchè i governi intervengono con soldi pubblici, nel 2010 quella che comincia come una crisi di banche private e dell’industria finanziaria diventa una crisi del debito pubblico. Alla quale si tenta di far fronte con politiche di austerità, che portano alla recessione e a tutti i danni che ben conosciamo».
L’Europa ha meno responsabilità?
«No, le responsabilità di Europa e Usa sono due facce della stessa medaglia. Pensiamo al fatto che i governi europei hanno avuto una parte importante nel processo di liberalizzazione dell’economia, nel creare le piazze finanziarie. E i gruppi finanziari europei hanno contribuito in maniera determinante a creare la situazione poi esplosa innanzitutto oltreoceano».
La politica, intanto?
«Il fatto che i governi abbiano salvato le banche con i soldi pubblici è stato difeso da molti sottolineando che poteva saltare tutto, che comunque sono stati salvati anche i risparmi della gente. Vero. Però è anche vero che i governi non hanno chiesto nulla in cambio. E potevano, forse dovevano farlo».
Cosa potevano chiedere?
«Per esempio di ridurre i derivati. Di eliminare certe attività discutibili. Di separare le oneste e necessarie attività di deposito e prestito da quelle meramente e smaccatamente speculative. Invece hanno concesso enormi aiuti e non hanno chiesto, e dunque ottenuto, nulla in cambio».
Potevano tentare di cambiare il modello produttivo?
«Anche. Automobile, televisione, frigorifero ormai ce li hanno tutti, dopo le enormi diffusioni dei decenni passati. Bisognava inventare altro».
I grandi gruppi finanziari?
«Hanno enormi responsabilità. Hanno inventato nuovi prodotti finanziari. Pericolosi perchè fondati su modelli che hanno concentrato il rischio su pochi piani e settori».
Le grandi banche?
«Sono rimaste scoperte anche per centinaia di miliardi di euro. Abbiamo assistito a fallimenti clamorosi anche in Europa. Tutto il sistema poteva saltare».
E l’Europa, appunto, cosa poteva fare?
«Anche qui, come si diceva, non è stato chiesto nulla in cambio. Ma il vecchio continente poteva in particolare fare a meno di sviluppare le piazze finanziarie, cercando di far meglio degli Stati Uniti, nella corsa forsennata alla distribuzione dei rischi».
Invece?
«Invece queste pratiche sono state esaltate. Ricordo che in Germania, nella campagna elettorale del 2005, entrambi i due maggiori partiti avevano preso l’impegno con gli elettori di trasformare il paese in una grande piazza finanziaria. E i problemi erano già quasi tutti sul tappeto».
I responsabili?
«La classe politica e dirigente, che non capito la crisi e ha favorito con ricette sbagliate i dirigenti dei grandi gruppi finanziari, davanti ai quali sono stati stesi dei veri e propri tappeti rossi».
Austerità fa rima con recessione?
«Sì, lo scrivono anche gli economisti liberali. Le politiche di austerità dei governi hanno prodotto ventisei milioni di disoccupati in Europa, dato dell’agosto 2013: sei/sette più del 2007».
Perchè parla di “attacco alla democrazia”?
«Perchè le dicisioni importanti vengono prese da un numero sempre più ristretto di persone, attraverso leggi e trattati sottratti al processo democratico. E si liquidano le discussioni dicendo che non ci sono alternative».
Invece, come se ne esce?
«Traducendo la consapevolezza degli errori fatti in passi politici. I trattati si possono modificare. Si può chiedere alla Bce di applicare meglio le sue norme. Si deve puntare sulla creazione di posti di lavoro...».
Altrimenti, sostiene Gallino, si continuerà a destrutturare le democrazie, distruggere i diritti, in primis quello al lavoro.
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