giovedì 5 dicembre 2013

LUDOVICO EINAUDI stasera a Trieste, Rossetti

Italo Calvino girava per casa sua, quand’era bambino: praticamente uno zio. In una famiglia letteraria nella quale Natalia Ginzburg era una sorta di zia. Capita se ti chiami Ludovico Einaudi, pianista di fama ormai internazionale che stasera alle 21 suona a Trieste, in un Politeama Rossetti strapieno: i biglietti sono esauriti (e tutti venduti sono anche i tagliandi per il concerto di Mario Biondi domani sera alle 21 al Teatro Nuovo di Udine). Chi affolla i suoi concerti a Londra e Parigi, a Berlino e Budapest, a New York e Sidney, probabilmente nulla sa di quel cognome importante, che significa figlio dell'editore Giulio e nipote del secondo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, appunto. «Calvino - ricorda il pianista, torinese, classe 1955 - era un personaggio particolare, molto attento ai dettagli, ai rapporti umani. Veniva spesso a casa nostra. La sua famiglia aveva tradizioni botaniche che anche lui coltivava. Sono passati quasi cinquant’anni, ma non dimentico che una volta mi regalò una pianta grassa, ricordo ancora il nome: sedum guatemalense. Particolare perchè le foglie, interrate, facevano nascere una nuova pianta». Suo padre? «Le sue amicizie, le sue frequentazioni mi hanno permesso di conoscere persone importanti legate alla cultura italiana. Ciò è stato fondamentale negli anni della mia adolescenza e formazione. Una figura impegnativa, la sua. Con lui ho condiviso alcune visioni del lavoro, la grande cura che aveva per il lavoro mi ha segnato. Bisogna avere passione per le cose che si fanno. La sua vita era indissolubile dalla sua attività. Un po’ com’è capitato a me». Il nonno? «Quando sono nato, nel ’55, aveva appena terminato il suo settennato al Quirinale. È morto che io avevo sei anni. I ricordi sono dunque per forza di cose molto sfumati, mediati dai racconti di mio padre. Credo però mi abbia lasciato una certa filosofia di sobrietà, presente nel mio dna. Il fatto di guardare alle cose importanti, una certa morale. Molto piemontese». La musica? «Mia madre suonava il pianoforte. Musica classica: Bach, Chopin, Schumann. Ma anche canzoni francesi: amava Jacques Brel, Moustaki. Dalle stanze delle mie sorelle arrivavano invece i suoni nuovi, i dischi dei Beatles. Io sono cresciuto in mezzo a tutto questo». Fino a che... «Fino a che un giorno cominciai a prendere lezioni private di pianoforte, poi presi a suonicchiare anche la chitarra. Nell’adolescenza, verso i sedici anni, misi su anche qualche complessino, sviluppando una conoscenza e un interesse maggiore. E decisi che avrei voluto appronfondire il mio rapporto con la musica. Mi iscrissi allora al convervatorio: composizione e pianoforte, sentivo un forte interesse per l’aspetto creativo della musica». Lo studio è stato importante? «Diciamo che mi è servito, mi ha aiutato a ragionare sulla musica. Ma forse è un’illusione, perchè poi la conoscenza ognuno la sviluppa per conto proprio, attraverso una propria interpretazione della musica e dei suoi misteri». A Londra, due mesi fa, all’iTunes Festival, ha diviso il palco con Lady Gaga... «Non nella stessa serata. C’erano anche Elton John, Kate Perry, Justin Timberlake. Un’esperienza che ho vissuto con grande entusiasmo. Un’occasione importante legata al discorso delle nuove tecnologie. Eravamo in un teatro, la leggendaria Roundhouse, con duemila persone in platea, ma in diretta streaming ce n’erano probabilmente cento volte tanto». Le piace mischiare i generi? «Molto. Quella sera mi divertiva il contesto diverso dal solito. È sempre stimolante mescolare le carte, soprattutto nella musica». Ascolta rock? «Sì, qualche volta. Radiohead, Bjork, Portishead, Pj Harvey... Artisti che suonano quello che a me sembra un rock di ricerca, che sperimenta soluzioni nuove. Di una scena che ha i suoi alti e bassi, ma mi dà degli stimoli». Da ragazzo? «Sono cresciuto con Beatles e Rolling Stones, ma anche Jimi Hendrix, il rock progressive di King Crimson, Soft Machine, Jethro Tull, Genesis. Mi piacevano i Pink Floyd, i Colosseum. Alcuni li ho anche visti dal vivo, a Torino, negli anni Settanta. Ma non ero un fan sfegatato, di quelli che divoravano i dischi». Com’è diventato un pianista star? «Per caso. All’inizio ero concentrato sulla composizione, il pianoforte era lo strumento per scrivere. “Time out”, il primo album, è uscito nell’88, ma non mi ha cambiato la vita. Le cose hanno cominciato a mutare negli anni Novanta, con dischi come “Stanze”, “Salgari”, soprattutto “Le onde”: un lavoro che ha ottenuto molta attenzione, ha cambiato il mio destino». Cosa propone a Trieste? «Alcuni brani del mio nuovo album, “In a time lapse”, e altre cose del passato. La mia musica».

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