lunedì 6 gennaio 2014

OMAGGIO A GUCCINI OGGI SU RAI EDUCATIONAL

Quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà» (“Eskimo”, dall’album “Amerigo”, 1978), comprato a Trieste sulle bancarelle di Ponterosso, Francesco Guccini non l’ha mai dimenticato. Era l’ottobre del ’63, la ventitreenne recluta modenese stava ultimando la sua naja triestina («Speravo di essere assegnato a una delle caserme in città - ci confidò una volta -, bestemmiai a lungo quando seppi che la mia destinazione era sul Carso, a Banne. Invece mi andò di lusso...») e prima di tornare a casa impiegò qualche migliaio di lire della paga da militare per acquistare quell’indumento che poi sarebbe diventato un simbolo del Sessantotto e degli anni Settanta italiani. Guccini da un po’ non fa più dischi, non tiene più concerti. Nel novembre 2012, all’uscita dell’album “L’ultima Thule”, ha detto di non volere più incidere nuovi album né fare concerti, ritirandosi dalla carriera musicale e proseguendo solo quella di scrittore. Problemi di età (a giugno compie settantaquattro anni), qualche fastidio alla vista, forse la voglia di passare più tempo nel “buen retiro” di Pavana. Ci pensano gli altri, a tenere accesi i riflettori su una delle figure più importanti della canzone italiana dell’ultimo mezzo secolo. A fine dicembre Raidue gli ha dedicato una puntata della serie “Unici”, con una testimonianza di Umberto Eco e un’ottava su di lui improvvisata da Roberto Benigni. In questi giorni quindici suoi vecchi album vengono ripubblicati in vinile e a tiratura limitata, dopo un’accurata opera di rimasterizzazione digitale. E oggi ci pensa Rai Educational a celebrare degnamente il nostro. Alle 19.30 (e poi in replica ogni quattro ore, su Rai Scuola ch.146 del digitale terrestre e ch.33 TivùSat) va infatti in onda una puntata di “Nautilus Connessioni. Visioni. Condivisioni” a lui dedicata. Uno speciale sulla musica e la vita di Guccini, intervistato nella sua casa di Pavana, appennino tosco-emiliano, che comincia dal passato, dalle origini. Del resto, pensandoci bene, lui ha sempre cantato il passato. Quello della locomotiva anarchica e libertaria, quello delle osterie di fuori porta («ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta...»), quello del suo personale Sessantotto, quello dei suoi giovani e meno giovani amori. Quello di Auschwitz e di Bisanzio, di Venezia e di Amerigo, della primavera di Praga e della signora Bovary. Anche da scrittore, in questi anni, non è stato da meno. Non solo con quell’autentica celebrazione del passato che un paio d’anni fa è stato il suo “Dizionario delle cose perdute”, pubblicato da Mondadori. Pagine intrise di pacata nostalgia per le cose, le situazioni, gli usi e i costumi che c’erano quando lui era ragazzo e che da tempo non ci sono più. Nel programma Guccini si racconta con ironia, guardando indietro alla sua infanzia («sono nato in un periodo particolare, quattro giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia»), agli anni trascorsi in quella “piccola città, bastardo posto” che è Modena. E citando Jorge Luis Borges sottolinea che «uno scrittore parte sempre da se stesso, come dice l’autore argentino, e io credo che si parta sempre da fatti accaduti, da personaggi conosciuti o meno. E quindi si parte sempre dalla propria esperienza personale». Ancora il cantautore: «Gli amici dicono che ho una grande memoria, il che non è vero. Però mi piace ricordare, andare nel passato; anche perché il futuro è inconoscibile, il presente è labile, fugace, dura un momento. Noi viviamo soprattutto nel passato e io l’ho scavato, da un certo periodo della mia vita, diciamo dai trent’anni in poi. Il mio primo disco che ha avuto un certo successo, “Radici” aveva in copertina la foto dei miei bisnonni e dei miei nonni, ed è lì che ho cominciato una ricerca per sapere quali erano le mie radici, per sapere chi erano i miei antenati, per ricercare il dialetto locale che ormai è scomparso, per la storia locale. I miei primi tre romanzi sono falsamente autobiografici, però ho usato tanti ricordi di quel periodo e di quegli anni, c’è la parte pavanese, la parte modenese e l’ultima parte, la parte bolognese. Ho frugato nella memoria». Raccontando del suo ultimo libro “Culodritto e altre canzoni”, spiega che si tratta di un’espressione modenese: «Esattamente è “ander via col cul dritt”, si riferisce di solito ai bambini piccoli che rimproverati vanno via impettiti. La versione dialettale però è più pittorica ed efficace e diventa “culodritt”. La canzone, nella fattispecie, era dedicata a mia figlia Teresa». Ma si diceva di quell’inverno del ’63, sul Carso triestino. «Faceva freddo - ci ha detto una volta Francesco Guccini -, questo sì. Ecco perchè acquistai quell’eskimo, che non aveva ancora il significato simbolico che avrebbe assunto in seguito. Da Banne i collegamenti con il centro città era buoni. E il nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava che i suoi soldati girassero per la città con la divisa, così quasi ci costringeva a uscire in borghese. Prendevo novantamila lire al mese, più cinquemila di frontiera orientale, considerata zona disagiata. Che poi disagiata non era per nulla. A Banne ero coccolato da tutti perchè sapevo suonare la chitarra. Nelle festicciole che si facevano in caserma, il maggiore Giacchini mi diceva: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo tavolo se ti ricordi questa canzone. Gli accordi magari me li inventavo, ma la bottiglia arrivava sempre...».

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