Agosto 1966. Candlestick Park, San Francisco, California. L’ultimo concerto “ufficiale” dei Beatles avviene allora e lì, mezzo secolo fa, in terra americana (il primo sbarco negli Usa era avvenuto due anni e mezzo prima, il 7 febbraio’64), incastonato proprio a metà della leggendaria carriera discografica dei Fab Four.
Appena otto anni, dal ’62 del singolo “Love me do” al ’70 dell’album “Let it be”, all’uscita del quale ognuno dei quattro aveva per la verità già intrapreso la sua strada. Ma otto anni sufficienti a segnare per sempre la storia della musica e del costume, financo della cultura, della seconda parte del Novecento. Un’influenza che è rimasta intatta fino ai giorni nostri.
Sì, perchè mezzo secolo dopo, e a quarantasei anni di distanza dallo scioglimento del gruppo, nonostante l’assassinio di John Lennon (New York, davanti al Dakota Palace, Central Park, 8 dicembre 1980) e la morte per cancro di George Harrison (Los Angeles, 29 novembre 2001), i Beatles sono ancora e sempre leggenda. Una vera e propria icona della musica e della cultura del Novecento, con cui devono fare i conti tutti, anche i ragazzi nati nel nuovo millennio.
Ma al di là delle ricorrenze e della nostalgia, vecchi e nuovi fan possono già segnare sul calendario una nuova data. Il 15 settembre esce infatti “The Beatles, Eight days a week”, il film evento del premio Oscar Ron Howard, che è costruito attorno alle immagini registrate durante le tournèe dei quattro fra il ’62 degli esordi al Cavern di Liverpool e appunto il ’66 dell’ultimo concerto americano.
Il film - prima mondiale a Londra, Leicester Square, poi una sola settimana nelle sale di tutto il mondo - racconta ancora una volta, attraverso filmati rari e in certi casi inediti, la storia di come quattro ragazzi chiamati John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr sono diventati, per una di quelle alchimie che accadono una sola volta nella storia della musica, i Beatles. Ed è stato realizzato con la piena collaborazione, e dunque l’approvazione, di Paul McCartney e Ringo Starr, oltre che delle vedove Yoko Ono Lennon e Olivia Harrison.
La stessa approvazione, anzi, una netta presa di distanza è giunta nei giorni scorsi dagli eredi Harrison quando Donald Trump ha usato “Here comes the sun”, il classico dei Beatles del ’69 firmato per l’appunto da George Harrison, alla convention del partito repubblicano a Cleveland. L’utilizzo del brano è stato definito «offensivo e contro i desideri della famiglia di George Harrison». Una presa di distanza che ricorda quella di Bruce Springsteen, che tanti anni fa vietò a Reagan l’uso di “Born in the Usa”.
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