di Carlo Muscatello
LONDRA
Via dall’Europa, ma anche dal punk. Già, perchè quei ragazzacci brutti sporchi e cattivi, i cari vecchi punk, insomma, sembrano non abitare più qui. A Londra, nel quarantennale della nascita del movimento che ha rivoluzionato musica, moda e costume, incrociare per strada ragazze e ragazzi con borchie, spilloni e creste variopinte è diventato ormai un caso tutto sommato raro.
A Piccadilly come a Brixton, a Camden e a Brick Lane, a Covent Garden e a King’s Road, la variopinta umanità giovanile non veste più la vecchia divisa. Il punk sembra (quasi) scomparso dalle vie londinesi, dove non c’è più traccia della sua furia distruttrice e iconoclasta. Sopravvive invece con la sua influenza nel rock contemporaneo. Ed è entrato nei musei, nei teatri, nelle gallerie con le celebrazioni de lle quattro decadi trascorse da quel ’76 degli esordi.
Alla Barbican Art Gallery fino a settembre si può per esempio visitare la mostra “Panic Attack! Art in the Punk Years”, alla Music Library dello stesso centro culturale c’è invece “Rockarchive’s a Chunk of Punk”, che espone l’archivio del fotografo musicale Jill Furmanovsky, dedicato ai protagonisti della scena punk, dai Clash ai Sex Pistols. Alla British Library c’è la mostra “Punk 1976-1978”, che ripercorre la nascita del fenomeno. Ma tutta la metropoli sul Tamigi in questi mesi sembra un palcoscenico dove vanno in scena frammenti di quell’epopea: quasi una “mappa punk” con eventi, rassegne musicali e cinematografiche, sfilate di moda, mostre fotografiche...
In quella grande cittadella della cultura, dell’arte, della musica, dello spettacolo che è il Barbican (situato nella parte a nord della City, sopra la Liverpool Station), passare in rassegna foto, poster, dischi, rarità, memorabilia permette di compiere un viaggio alle origini del genere. Si torna al rockettaro Malcom McLaren (scomparso nel 2010), manager dei Sex Pistols, e a sua moglie, la stilista Vivienne Westwood. Quel loro negozio “Sex” dove tutto ebbe inizio, pieno di jeans strappati, borchie e catene, spilloni e spillette. Quando con il termine punk si indicava, non solo e non tanto un genere musicale, ma tutto quello che andava contro la morale corrente, innanzitutto negli abiti, ma anche negli stili di vita.
Già, la musica. Era il febbraio del ’76, quando sul palco della St. Martin’s School of Arts quattro ragazzacci fanno per la prima volta tabula rasa di tutto quel che il rock era stato fino a quel momento. Via le raffinatezze del “progressive”, della cosiddetta Scuola di Canterbury, ma in malora anche gli stilemi del rock classico. Sono i Sex Pistols, che debuttano pochi mesi dopo, per l’esattezza il 26 novembre, con “Anarchy in the Uk”, il singolo che lanciava l’album “Never mind the bollocks”.
Nell’anno del giubileo d’argento della regina Elisabetta cantano l’irriverente “God save the queen”. Parlano di “regime fascista”, distruggono gli strumenti sul palco, insultano e sputano addosso agli spettatori delle prime file. Ciononostante o forse proprio per questo fanno proseliti e diventano gli idoli e un punto di riferimento per moltitudini di ragazzi e ragazze in cerca di se stessi. La crisi economica e le politiche della Thatcher, che diventa primo ministro nel ’79, faranno il resto.
Come molti movimenti degli anni Sessanta e Settanta, anche il punk voleva cambiare il mondo. Attingendo alle sottoculture proletarie, proponeva una cultura alternativa che è stata però fagocitata dall’industria, dal consumismo, dal mainstream. A girare fra le mostre e le iniziative che la capitale londinese dedica a questi quarant’anni sembra diventato, forse oggi è soltanto un pezzo da museo. E i jeans strappati di milioni di ragazze e ragazzi in tutto il mondo somigliano al suo triste nonchè globalizzato epitaffio.
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