sabato 3 giugno 2006

di Carlo Muscatello


TRIESTE Massimo Ranieri guarda il mare, davanti al Teatro Verdi dove sta lavorando da qualche giorno (martedì 6 giugno debutta con la regia lirica de «La Traviata»), e inevitabilmente torna con il pensiero a Napoli. «Sì, Trieste mi ricorda un po’ Napoli. Com’è che dicono? I triestini sono i napoletani del Nord... Sarà vero...? È un fatto che le città di mare si somigliano un po’ tutte. Porti spalancati sul mondo, pronti ad accogliere genti che arrivano da chissà dove. Culture, lingue, religioni, razze, usanze, costumi diversi... Cosa c’è di più bello...?»
Poi il pensiero va a Strehler, che Ranieri chiama ancora «il maestro». E dice: «Lui era fiero di essere triestino. Diceva sempre che esistono due sole grandi lingue: il veneto (e il triestino ne è parente stretto) e il napoletano, gli altri sono dialetti. Mi piacerebbe conoscere di più questa città, anche in suo onore. Invece ci vengo da tanti anni, sempre per lavoro, e quando sei in una città per lavoro finisce che non la conosci mai veramente. Stai in teatro, in albergo, al ristorante... Certo, riesci a ritagliarti qualche spazio, qualche pausa, ma sei troppo concentrato sul lavoro per poterti rilassare. E conoscere veramente una città».
Ancora Strehler: «Con lui ho lavorato la prima volta nel 1980, per ”L'anima buona di Sezuan”. Poi nel ’94 abbiamo fatto assieme anche ”L'isola degli schiavi”. Lui mi ha insegnato davvero tutto: la disciplina, il rigore, l’amore e l’abnegazione per questo mestiere...».
Già, questo mestiere. Il pensiero torna indietro negli anni. All’infanzia povera napoletana. «Quando ho cominciato a cantare avevo tredici anni. Era un modo per tirare a campare, come fanno tanti ragazzi a Napoli. E in più c’era che facevo qualcosa che mi piaceva... I miei genitori avevano vissuto in tempi di guerra, avevano fatto la fame. Vedere un figlio che si guadagnava da vivere cantando all’inizio sembrava loro una cosa impossibile, poi è diventata una grande soddisfazione. Nella vita si impara sempre, non ci si deve fermare mai. Proprio come il bambino che muove i primi passi, dice le prime parole, guarda alla madre e al padre cercando esempio e protezione...».
Gli chiedi quali sono stati gli incontri importanti della sua vita. Non ci pensa neanche su e spara: «Bolognini, che mi ha fatto fare ”Metello”; Patroni Griffi, con cui ho cominciato a fare teatro; e Strehler, il maestro...».
Gli fai notare che non c’è nessun nome legato alla sua anima musicale, che rimane forse quella più importante, o se non altro quella con cui è cominciato tutto. Ci pensa e risponde: «È vero. Perchè quella mi sembra una fiaba ormai lontana nel tempo. Certo, fu importante l’incontro con Enrico Polito, il mio primo produttore, quello che tanto per cominciare mi cambiò nome: Giovanni Calone faceva troppo vicoli napoletani, poteva al massimo vendere pizze, non certo diventare un cantante... Meglio Massimo Ranieri: a Napoli in quegli anni nessuno si chiamava Massimo, e Ranieri faceva tanto nobiltà, gente ricca e famosa...».
«Fu Polito che mi portò a Roma, a Milano. Mi ricordo un incontro con Ladislao Sugar, padre di quel Piero Sugar che poi sposò Caterina Caselli. Mi concesse un’audizione nel ’66, a Milano. Avevo quindici anni. Mi chiese: ”Ma lei cosa vuol fare nella vita...?” Mi ascoltò, e poi mi disse: ”Vedrà, vedrà che un giorno le chiederanno le sue canzoni...».
Seguì il primo contratto, il primo disco, il successo immediato... Un successo incredibile, per un ragazzo costretto a crescere in fretta, autodidatta in tutto. «Fra il ’69 e il ’75 avevo fatto tutto. Canzone e cinema. Ero senza più stimoli. E i tempi stavano cambiando. Mentre Morandi, mio amico e rivale di tante gare canore, si metteva a studiare contrabbasso al conservatorio, io incontrai Patroni Griffi: ”Io ti faccio fare teatro...”. Me l’avesse detto qualche anno prima, gli avrei risposto: ”Ho da fare...”. Mi beccò invece nel momento giusto. E mi trovai a teatro, dove i primi tempi furono duri. Ero considerato il cantantino, il divetto, certe volte ci scapparono pure delle litigate...».
Saltiamo trent’anni. E siamo al 2003. Alla sua prima regia lirica. «Mi offrirono di fare ”Cavalleria rusticana” e ”Pagliacci” a Macerata. E mi ci sono buttato. Ho deciso di ricominciare, un’altra volta. In fondo, è quello che ho sempre desiderato. Del resto a teatro o ti butti o non combini nulla. È un’altra lezione di Strehler...».
O il suo senso tutto napoletano e tutto meridionale di arrangiarsi, di imparare facendo, di rubare con gli occhi e le orecchie la lezione di chi è più bravo di te... «Sì, certo, è anche questo. Il bisogno aguzza l’ingegno. Imparare improvvisando è più bello, e noi del sud siamo degli specialisti in materia. Siamo sempre stati schiacciati, oppressi, dimenticati, e allora è chiaro che ti tocca inventarti la vita. Senza scuola, senza studio, anzi, meglio: studiando dopo, cercando le conferme teoriche delle soluzioni che tu ti sei inventato con la fantasia, con il gusto per l’improvvisazione. E comunque studiare dopo, andare a ritroso è più faticoso. Anche se forse non mi sarebbe piaciuto ”fare le cose regolari”, studiare a tavolino e poi metter in pratica. Molto meglio così...».
Chiacchieriamo da mezz’ora e non abbiamo ancora parlato di questa sua «Traviata»... «È vero. E allora dico subito che la mia non è una ”Traviata” stravolta, io rispetto il libretto, rispetto il grande genio di Verdi. Piuttosto ho tentato di mettere in risalto una cosa a mio avviso fondamentale: la protagonista è una ragazzina di sedici anni che muore di tubercolosi a ventitre... È poco più di una bambina che si prostituisce, che non ha mai conosciuto l’amore di nessuno, né genitori né tantomeno uomini, e che quando scopre l’amore glielo sottraggono...».
«Ecco, io ne ho viste tante, di ”Traviate”, ma secondo me nessuno ha mai messo adeguatamente in rilievo questo dramma che la ragazza si porta dentro. È quello che ho tentato di fare. Per il resto, musicalmente è una ”Traviata” ortodossa, il mio è stato un lavoro drammaturgico sul testo. Insomma, non è una ”Traviata” pop...».
Cos’è, non le piacciono le contaminazioni? «Nella musica sì. E infatti sto facendo un altro disco di canzo<USnuogra>ni napoletane, della serie con Mauro Pagani, nel quale contaminiamo che è una bellezza... Ma a teatro no, io sono per il teatro classico, mi piace lavorare sul testo. Non credo che ”La Traviata” abbia bisogno di contaminazioni, anche se ovviamente rispetto Lucio Dalla e gli altri che mischiano linguaggi anche a teatro...».
Poi Massimo Ranieri divaga di nuovo. Parla di televisione («Quando mi chiamano, ci vado. Ma quella attuale non mi piace, è lo specchio di questa società che non va bene...»), del nuovo Presidente della Repubblica («Napolitano è una grande figura. Ed è il terzo napoletano, dopo De Nicola e Leone, al Quirinale...»), di politica («Troppo gridata, proprio come la tivù. Non c’è più dialogo, non c’è educazione...»), della sua Napoli («Ci torno spesso. C’è una gran voglia di vivere e di rinascere...»).
E di Gianna Nannini: «Anni fa mi è successa una cosa incredibile. Ero in un negozio, a Milano, e lei mi si para davanti, dicendomi: ”Massimo, come stai... ma non mi riconosci...”. Io le dico che sì, la conosco, che è Gianna Nannini. E lei invece mi dice ”no, bischero...”, e mi ricorda un episodio del ’69, quando lei aveva quattordici anni, alla Bussola di Viareggio, dove io cantavo per una settimana. E dove ogni pomeriggio, alla fine delle prove, arrivava questa ragazzina con la vespa e si offriva di accompagnarmi fino all’albergo. Così, per quattro o cinque giorni. Contenta solo di darmi un passaggio. Poi non l’avevo più vista. Fino a quel giorno a Milano, quando mi fece tornare in mente quell’episodio sepolto nella mia memoria. È stata un’emozione incredibile, mi viene la pelle d’oca ancora ricordarlo...».

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