lunedì 24 novembre 2008

MORIRE DI CLASSE / BASAGLIA


Era il 1968. E i manicomi esistevano ancora. I fotografi Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin entrarono prima nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, poi in quelli di Parma e Firenze. L’idea di farne un libro - che sarebbe uscito l’anno dopo - era di Franco Basaglia, che proprio a Gorizia stava avviando quella rivoluzione innanzitutto di civiltà poi realizzata a Trieste. Di quel «Morire di classe», Einaudi stampò all’epoca soltanto mille copie. Era il primo libro che documentava l’orrore del manicomio e dava idealmente il «la» a tutto quel che sarebbe successo dopo e avrebbe avuto nella Legge 180 il suo quadro normativo.

Ora Duemilauno Agenzia Sociale - concretizzando l’idea del giornalista e fotografo Claudio Ernè, che firma la prefazione - pubblica la ristampa anastatica di quel volume, nell’ambito delle celebrazioni del trentennale della Legge 180, che cade quest’anno. La presentazione si terrà domani alle 18, alla Stazione Rogers (Riva Grumula 14).

«Il progetto del libro - ricorda Carla Cerati - fu di Basaglia, che in precedenza aveva pensato a un libro fotografico su tutte le istituzioni repressive: il manicomio, la caserma, la scuola, il riformatorio, la famiglia. Però, visto nell’immediato lavorava per l’eliminazione dei manicomi, decise di fermarsi a questo: un’inchiesta complessiva avrebbe richiesto troppo tempo. Poi la richiesta di realizzare il reportage è partita da me, dopo aver letto i libri che Basaglia stava pubblicando con Einaudi. Tramite la casa editrice mi sono messa in contatto con lui che immediatamente si è detto disponibile e si è dato da fare per aiutarci e entrare anche negli altri manicomi».

Com'è stato il rapporto con Basaglia?

«Splendido: come avrebbe potuto non esserlo? Con lui tutto diventava semplice. Era un geniale rivoluzionario, provvisto di humour e al tempo stesso di pietas».

Le foto come sono state scelte?

«In una riunione alla casa editrice, a Torino. Non ricordo se era presente anche Franca Ongaro Basaglia, ma mi pare di no. Con Basaglia c’era Giulio Bollati, editor dell’Einaudi, oltre a me e Berengo. Noi avevamo presentato una scelta di stampe nel formato 30x40. Per le riprese io avevo lavorato con la Nikon e Berengo con la Leica. La scelta finale, per volontà dei Basaglia e di Tommasini, all’epoca assessore e membro dell’Associazione contro la malattia mentale, venne realizzata in pannelli di due metri ciascuna per una mostra agli ex-gabinetti pubblici di Parma. Si trattò di un evento a cui Franco e Franca Basaglia lavorarono personalmente. Così come per il libro: loro fu anche la scelta dei testi».

Quali difficoltà avete avuto nel realizzare le fotografie?

«Nel manicomio di Parma gli infermieri che ci accompagnavano, quando hanno capito che cosa stavamo facendo, cioè che non ci limitavamo a fotografare gli ambienti, ci hanno intimato di consegnare i rullini. Ma Berengo, che aveva previsto questo rischio, li ha fatti sparire in un ombrello. E abbiamo consegnato dei rullini vergini».

Scattando aveva la consapevolezza di realizzare un lavoro "storico"?

«No, forse non l’ho percepito subito. Certo, il fatto di lavorare per la causa di Basaglia mi era sembrato di per sé importante».

Perchè all'epoca sono state stampate solo mille copie?

«Io con gli zeri sbaglio sempre, ma mi pare di ricordare che la prima tiratura fosse in realtà di 10 mila copie a un prezzo “politico”, perché sia Basaglia che la casa editrice volevano che il libro avesse diffusione tra gli studenti. Poi, per un buon numero di anni, sono state ristampate mille copie all’anno».

Quelle foto poi hanno fatto il giro del mondo.

«Sì, e continuano a girare».

Lei poi ha seguito il lavoro di Basaglia anche a Trieste?

«Sono stata a Trieste nel ‘77, invitata personalmente da Basaglia, per il Reseau Internazionale della Psichiatria. È stata un’altra esperienza importante».

Ha seguito anche la chiusura del manicomio triestino? Ed è tornata in quelli di Gorizia, Parma e Firenze?

«No. Con l’appoggio di Basaglia abbiamo lavorato sul tema per sei mesi fotografando a Gorizia, Parma, Firenze e Ferrara. Lo scopo era fare un’azione di rottura, scuotere le coscienze, mostrare qualcosa che i più non conoscevano e inconsciamente non volevano conoscere. Questa consapevolezza, almeno per me, è venuta dopo essere entrata per la prima volta in un ospedale psichiatrico. Prima c’era soltanto l’idea di fotografare qualcosa di estremo, una realtà drammatica e sconosciuta che ci veniva concesso di avvicinare».

Quelle foto hanno influenzato la sua attività di fotografa e poi di scrittrice?

«Non credo. Ma è stata sicuramente un’esperienza umana e professionale importantissima, non foss’altro perché mi ha dato l’occasione di conoscere persone straordinarie come Basaglia e sua moglie Franca Ongaro, Mario Tommasini, Leo Nahon e tanti altri che sarebbe lungo elencare».

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