EUGENIO FINARDI
CAPODISTRIA «Non ero un ribelle ideologico, ma un ribelle idealista. È per questo che molte mie canzoni di trent’anni fa, in fondo, rimangono attuali e fruibili anche adesso...». Parla Eugenio Finardi, che stasera alle 20 al Teatro di Capodistria presenta lo spettacolo ”Omaggio a Vysotsky” (assieme al cantautore Jani Kovacic, nell’ambito dei festeggiamenti per i sessant’anni di Radio Capodistria, che trasmette la serata in diretta), mentre domani e sabato alle 20.45, al Teatro Verdi di Pordenone, propone ”Suoni - Appunti e contrappunti teatrali”.
«Quando nel 2002 ho festeggiato cinquant’anni di età e trenta di carriera - spiega l’artista milanese -, ho deciso di cambiare musicalmente vita: non avrei più inseguito il successo ma mi sarei dedicato solo alle cose che mi piacciono. Ho fatto allora un disco sul fado portoghese e uno sul blues americano, che rimane il mio primo grande amore. Ma anche il disco e lo spettacolo su Vysotsky, e poi questo spettacolo teatrale che adesso arriva a Pordenone...».
Cominciamo da Vysotsky. Chi è?
«Era un attore, autore e cantante russo, boicottato dal regime sovietico. In un secolo che ha celebrato gli ”artisti maledetti”, lui lo è stato più di tutti. Diede voce ai perdenti che non si arrendono, agli sconfitti indomiti, agli idealisti disillusi. Quando venne in Occidente per la prima volta disse: in Russia non credono all’anima dunque la lasciano stare, qui con i soldi si corrompe anche quella. È morto nell’80».
Come l’ha scoperto?
«Il Club Tenco mi chiese nel ’94 di interpretare le sue canzoni. Le ascoltai, scoprendo un uomo e un artista che non si è fatto mai corrompere dal potere. Uno che non era disposto a cambiare nulla di se stesso per compiacere chicchessia. Me ne innamorai. Il frutto furono lo spettacolo, che ora ripropongo a Capodistria, e il disco ”Il cantante col microfono”, assieme all’ensemble Sentieri selvaggi, che vinse il Premio Tenco».
Con ”Suoni”, invece, debutta nel teatro canzone che fu di Giorgio Gaber...
«Non scrivo canzoni nuove da dieci anni, dunque dall’altro secolo. Contenitori troppo brevi, per come io sono adesso. In questa fase della mia vita preferisco raccontare le ombre, i chiaroscuri, ho bisogno di spazi più ampi per esprimermi. La forma canzone è troppo limitata per contenere tutti i concetti che sento il bisogno di esprimere».
Dunque?
«Dunque sono in realtà tornato alle origini. Mia madre è americana. E a vent’anni, prima del successo con la musica in Italia, studiavo teatro a Boston. La mia prova d’esame fu ”L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello...».
La ”Musica ribelle” fu allora un incidente di percorso...
«In un certo senso. Capitai nella Milano della contestazione degli anni Settanta. Io, Alberto Camerini, Fabio Treves volevamo essere funzionali al Movimento. La musica era per noi un momento di militanza politica, quasi una parentesi. Non rinnego nulla, sia chiaro, ma quelle canzoni non erano un tentativo di fare poesia. Piuttosto dei ta-tze-bao in musica, utili alla causa...».
Torniamo allo spettacolo teatrale.
«Sì. Come dicevo è una dimensione che fa parte della mia storia, ma fu proprio lo spettacolo su Vysotsky a far scattare la molla. Ne è venuto fuori questo percorso teatrale e musicale, nel quale i racconti che ho scritto per l’occasione si alternano alle mie canzoni. È la mia storia personale, che mi offre lo spunto per rileggere anche fatti che hanno segnato il secolo scorso».
Nella prima scena parla di sua madre.
«S’intitola ”Nato in uno strumento musicale”. Quello strumento è lei, che era una cantante lirica. In casa si diceva che mi aveva partorito con l’acuto della Regina della notte, dal Flauto magico di Mozart. Leggende familiari a parte, mia madre ha avuto una grande influenza, anche musicale, sulla mia crescita. Adoro il blues perchè l’ho scoperto e subito amato a tredici anni, negli Stati Uniti. Ma nelle mie cose si può intravedere anche un’impronta barocca, qualcosa dell’opera settecentesca a lei così cara».
In un’altra scena parla del suo rapporto con Medici senza frontiere.
«Una delle esperienze più importanti della mia vita. Loro si occupano della cura, ma hanno bisogno anche di persone che si occupino della testimonianza. Io sono andato e ho raccontato. Nel ’98 in Sudan, nel ’95 a Sarajevo, prima degli accordi di Dayton. Luoghi diversi, ma storie sempre uguali di dolore e sofferenza e coraggio. Ricordi ancora presenti. In particolare quelli sotto l’assedio di Sarajevo, assieme a un gruppo bosniaco: forse i giorni in cui mi sono sentito più vivo...».
”Musica ribelle” chiude il monologo sul Sessantotto.
«Sì, la trovo in tema con l’ultima epoca in cui c’è stata una visione del futuro come di un’utopia possibile. In quegli anni si è osato sognare, oggi siamo al salvate il salvabile. Per quella canzone comunque provo un sentimento di amore e odio. Per me rappresenta un marchio e una condanna. Ecco, quando ho deciso di dedicarmi ad altre cose è stato anche perchè non volevo essere condannato a cantare le stesse dieci o venti canzoni per tutta la vita...».
Quali altri brani ha inserito nello spettacolo?
«Ho scelto episodi noti e altri meno noti: ”Le ragazze di Osaka” e ”Laura degli specchi”, ”Patrizia” e ”Vil Coyote”, ”Diesel” e ”Dolce Italia”... Tutte canzoni che vengono usate a commento dei testi».
Ma ce n’è una che ama di più?
Ci pensa un attimo. «Sì, preferisco ”Non diventare grande mai”, perchè è una mia canzone che allora parlava già di oggi. La trovo paradigmatica di un mio modo di scrivere canzoni ispirate dagli ideali e non dall’ideologia. Nella scrittura ho sempre avuto un approccio molto pragmatico, sarà stato per il mio essere mezzo americano, ma il risultato è che molti di quei brani oggi sono ancora attuali».
Il tempo dei saluti. E di un ricordo. «Torno sempre volentieri da queste parti. Quand’ero bambino, nella Milano degli anni Cinquanta, avevamo una governante di Palmanova, che fra l’altro è poi sempre rimasta con la nostra famiglia. Con lei sono venuto tante volte, nella sua città, ma anche a Trieste. Cosa ricordo? Ovviamente la bora, per un bambino quel vento fortissimo era una cosa incredibile...».
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