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sabato 12 febbraio 2011
POOH
Nel 1966 l’America di Lyndon Johnson bombardava il Vietnam, la Russia comunista di Breznev spediva una sonda spaziale sulla Luna, in Italia c’era Aldo Moro a capo di un quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pri, ai mondiali inglesi di calcio la Corea del Nord umiliava l’Italia, i Beatles cantavano ”Yellow submarine”, Berlusconi costruiva le prime palazzine, il Sessantotto doveva ovviamente ancora arrivare... E nascevano i Pooh.
Sono passati quarantacinque anni. Il mondo di oggi sembra un lontano parente, nemmeno troppo somigliante a quello di allora. Ma i Pooh ci sono ancora, rassicuranti come la mamma ed eterni come il rincorrersi delle stagioni. Il segreto della loro longevità si ignora dove stia. Chissà, forse riuscirà a capirlo il pubblico triestino giovedì e venerdì al Politeama Rossetti (inizio alle 21, biglietti ancora disponibili nel circuito tradizionale delle prevendite).
«Ma in realtà quel segreto è molto semplice - dice Red Canzian, che dei tre Pooh attuali è quello entrato nel gruppo per ultimo, nel comunque lontano ’73 - e si chiama amore per la musica, rispetto per il pubblico, passione per questo mestiere. È questa la ricetta che ci ha permesso di superare tutte le crisi, compresa l’ultima...».
L’uscita di Stefano D’Orazio, dopo la quale pochi avrebbe scommesso sulla vostra volontà e capacità di andare avanti.
"È vero. Stefano ci aveva comunicato due anni e mezzo fa la sua determinazione a smetterla. Non ce la faceva più, sentiva che una fase della sua vita si stava chiudendo, aveva voglia di fare altre cose. All’inizio noi tre (Roby Facchinetti, Dodi Battaglia e lo stesso Red - ndr) eravamo molto in dubbio su cosa fare. C’era tanta confusione».
Come ne siete venuti fuori?
«Passando assieme le vacanze di Natale del 2009, parlando fra noi, scoprendo che avevamo voglia di continuare. Allora ci siamo messi due mesi a scrivere, ognuno per conto suo. Quando ci siamo ritrovati, ricordo che era il 28 febbraio 2010, abbiamo ascoltato il materiale che avevamo scritto. E ci siamo resi conto che in quelle registrazioni c’era la musica con la quale potevamo ancora presentarci dinanzi al nostro pubblico».
Dalla possibile fine al rilancio?
«Sì, ma anche da un fatto negativo come una rottura (peraltro assolutamente civile e amichevole: abbiamo scritto le musiche per il suo musical ”Aladin”) a un’iniezione di nuovo entusiasmo, di rinnovata voglia di comporre e suonare».
Ma allora l’ultimo periodo in quattro facevate finta...
«Questo no. Diciamo che eravamo entrati nella routine, davamo tutto per scontato, come nelle coppie stanche, quando non si pensa più all’altra persona. La separazione aveva creato una certa tensione. Ora abbiamo ritrovato un’amicizia, un affiatamento, una compattezza che col tempo avevamo smarrito».
Nel nuovo disco, ”Dove comincia il sole”, c’è aria di anni Settanta. Vi siete salvati tornando alle origini?
«In un certo senso sì. In quell’anno di riflessione, fra l’uscita di Stefano e la ripartenza in tre, ci siamo chiesti che cosa ci aveva fatto diventare grandi, che cosa ci aveva permesso di passare dalle balere di provincia agli stadi, dalla gavetta allo status di gruppo pop più famoso d’Italia».
E vi siete risposti...
«...che era stato l’amore per la musica, per una certa musica di quando anche noi eravamo ragazzi. Insomma: i Beatles, i Pink Floyd, i Genesis, quella gente lì. E da lì, da quella stagione irripetibile della musica internazionale, dal nostro grande amore per quei grandi gruppi, siamo ripartiti in cerca delle nostre radici».
Le avete trovate?
«Direi di sì, almeno a giudicare dalla reazione del pubblico in questi concerti che stiamo tenendo in giro per l’Italia. Da questa svolta, da questa scossa che l’essere rimasti in tre ci ha dato, è venuto fuori un album molto amato, che amiamo ancor più ora che lo portiamo dal vivo nei concerti. Con brani nuovi che profumano della stagione musicale nella quale i Pooh sono nati».
Si aspettava un batterista al posto di D’Orazio, ma la vostra scelta è stata diversa.
«Sì, nel disco e nei primi sette concerti nei palasport c’era con noi il grande Steve Ferrone, batterista inglese che non ha bisogno di presentazioni, avendo suonato fra gli altri con artisti del calibro di Eric Clapton e Paul Simon. Ma la collaborazione con lui è stata a livello di ”guest star”».
Costava troppo?
«No, non è quello. È che per la quotidianità, abbiamo bisogno di musicisti più vicini a noi, anche fisicamente. E ora con noi tre, in questo tour, ci sono Danilo Ballo alle tastiere, Ludovico Vagnone alle chitarre e Phil Mer alla batteria. Il primo era già nostro collaboratore in sala d’incisione, il secondo ha lavorato con Andrea Bocelli e Miguel Bosè, il terzo...».
È vero che al terzo, la prima batteria, quand’aveva solo cinque anni, gliel’ha regalata lei?
«Ebbene sì, Phil è figlio di mia moglie. Ma non si pensi a un becero caso di nepotismo. Lui è bravissimo: ha già collaborato con Pino Daniele, con Patty Pravo, con Malika Ayane. Quella prima batteria gliela regalai io, i maligni dicono per dirottarlo su uno strumento nel quale non mi avrebbe fatto concorrenza... Scherzi a parte, a sette anni Phil si divertiva già a suonare la batteria di Stefano, veniva ai nostri concerti, conosceva tutte le nostre canzoni prim’ancora di venire a suonare con noi».
Insomma, la temuta categoria dei ”figli dei Pooh” cresce...
«Non posso negarlo. Del resto dieci o quindici anni fa i backstage dei nostri concerti somigliavano a degli asili infantili. Tutti i nostri figli sono cresciuti in mezzo alla musica, ma in un ambiente sempre serio e professionale. Accorgendosi che si tratta di un lavoro affascinante ma non di un gioco».
Sua figlia Chiara Canzian che fine ha fatto, dopo il Sanremo Giovani di due anni fa?
«Ora è a New York, suona con un gruppo di musicisti americani, a marzo esce il suo nuovo album. Anche lei sta trovando pian piano la sua strada, come ha fatto Francesco Facchinetti, come sta facendo Daniele Battaglia, per non parlare di Alessandra Facchinetti, affermata stilista, per ora l’unica fuori dal giro della musica».
Morandi vi voleva in gara a Sanremo?
«Sì, è venuto a trovarci ai primi di gennaio. Ma purtroppo non è stato possibile. Poi ha detto che il suo unico rammarico è non aver convinto i Pooh. Davvero carino».
In compenso siete andati a suonare in America.
«Sì, abbiamo fatto due concerti in Canada, alle Niagara Falls, e due negli Stati Uniti, ad Atlantic City. Noi tre da soli, in acustico. Pubblico soprattutto di italoamericani, dire che erano entusiasti è poco...».
Di Trieste cosa ricorda di più?
«Tantissimi concerti. Quella famosa volta che Stefano passò una notte al Coroneo, nel ’74, perchè aveva difeso ”troppo animatamente” una ragazza che per strada era stata trattata male da un tale, che poi si era rivelato essere un colonnello dei carabinieri... Ma anche una notte in barca, quattro anni fa, dinanzi alla stupenda piazza dell’Unità...».
Al Rossetti che spettacolo fate?
«Uno spettacolo sobrio, compatto, abbastanza rock. Un miscuglio fra cose nuove e i nostri classici, in un’atmosfera a tratti medioevale, quasi fantasy, come nelle nostre suite dei primi anni Settanta. Cominciamo con ”Dove comincia il sole” e chiudiamo, quasi tre ore dopo, con ”Questo sono io”: i brani che aprono e chiudono il nuovo disco. In mezzo, ovviamente c’è tutta la nostra storia».
Una sorpresa?
«Facciamo per la prima volta dal vivo ”Il tempo, una donna, una città”, una suite di nove minuti che stava nel nostro album del ’75 ”Un po’ del nostro tempo migliore”. Pezzo difficile, finora non ce l’eravamo mai sentita. Ma stavolta siamo in sei...».
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