domenica 20 febbraio 2011

SANREMO finale


Roberto Vecchioni meritatamente primo con ”Chiamami ancora amore”. Dietro di lui Emma e i Modà con ”Arriverà” e poi Al Bano con ”Amanda è libera”. È questo l’«anziano» podio (primo e terzo sono nati nel ’43) del 61.o Festival di Sanremo. Di cui rimarranno soprattutto l’emozionante lezione storica di Roberto Benigni, la satira bipartisan delle ”iene” Luca e Paolo, una manciata di belle canzoni (su tutte: proprio quella di Vecchioni), ma anche il godibile ”come eravamo” di ieri sera fra Gianni Morandi e Massimo Ranieri. Al netto del ”piccolo giallo” sorto ieri sul televoto, quando è stata rivelata una graduatoria parziale che invece doveva rimaner segreta (con seguito di polemiche, proteste, esposti...)

Cominciamo da Morandi. Con mezzo secolo di carriera alle spalle, dopo aver inciso a caratteri indelebili il proprio nome nella storia della canzone ma anche del costume italiano, a sessantasei anni (portati splendidamente, va da sè), il figlio del ciabattino comunista di Monghidoro si è lasciato tentare dall’avventura di firmare un Festival. Lui che è sempre stato cantante, a volte attore, nemmeno autore.

E va subito detto che il meglio l’ha dato allestendo il cast, portando in gara artisti di valore e canzoni presentabili, pur senza tradire la vocazione ”tuttifrutti”, un colpo al cerchio della qualità e uno alla botte della tradizione, senza la quale Sanremo non è Sanremo. Ma Morandi non è un conduttore, tantomeno un intervistatore, e il fatto di avere a disposizione ben sei autori (per lui, Belen Rodriguez ed Elisabetta Canalis) non gli ha evitato di evitare figure imbarazzanti.

Da certi passi falsi - si pensi alle gaffe con la Bellucci e alle cosiddette interviste a De Niro e Andy Garcia, mentre ieri con Ranieri era comprensibilmente più a suo agio - altri sarebbero usciti con le ossa rotte: rispediti a casa, bravo ma basta e a mai più rivederci. Il Gianni nazionale è invece troppo amato da tre generazioni di italiani, disposti a perdonargli tutto, sull’altare della sua bonomia e di essere quell’«uno su mille» che ce la fa e non si monta la testa. Risultato: mentre il suo «Stiamo uniti, siamo una squadra...» è già un tormentone, lui esce da questo Festival da vincitore. E alla Rai, complici gli alti ascolti realizzati, qualcuno sta già pensando di affidargli il bis.

Di certo un bis non lo meritano le due bellone. La sarda Canalis frequenterà pure Hollywood, grazie al fidanzato Clooney, ma è rimasta velina nella testa (fu lì che debuttò, a ”Striscia”, nel ’99) e ha la presenza scenica di una pianta di mirto. Passerà alla storia il figurino rimediato in qualità di ”traduttrice” delle domande a De Niro: in un’occasione ha tradotto in inglese la domanda dopo che l’attore aveva già risposto in italiano, poi si è bloccata su un misterioso - almeno per lei - termine inglese del vecchio Bob che raccontava dell’infanzia a Little Italy. E la chiacchierata è praticamente finita lì.

Meno peggio l’argentina Belen, che almeno è più reattiva, meno rigida, balla bene. «Una scienziata» anche rispetto al fidanzato Corona, come le hanno cantato ieri Luca e Paolo sulle note di ”Grazie perchè”. Ma siamo comunque nel territorio di quelle bellezze femminili con le quali - scusate, signore - tutto fila liscio finchè tacciono.

È chiaro che, dinanzi alle due stangone, giganteggiano le due ”iene” Luca e Paolo. Qualcuno li ha accusati di aver subìto i diktat Rai di ”bilanciare” politicamente i propri interventi. Una sorta di par condicio dello sfottò. Ma i risultati danno ragione alla coppia: dopo l’esilarante ”Ti sputtanerò” della prima serata, che sulle note di un vecchio successo morandiano ha messo alla berlina Fini e Berlusconi (il più preso di mira durante tutto il Festival) e la fine del loro amore politico, non meno azzeccati sono risultati ieri il monologo sugli ondivaghi ”valori della sinistra” e l’altra sera la gragnuola di colpi ai dirigenti del Pd, sull’aria di un altro classico di Morandi, ”Uno su mille”. Domandina: dove sta scritto che si può ridere solo dell’imbarazzante sultano di Arcore e non di certi figuri del centrosinistra, che hanno permesso all’altro di farci precipitare nell’abisso attuale?

Lasciamo perdere, ch’è meglio. E segnaliamo che un altro punto al merito delle due ”iene” è l’umiltà. «Fare i comici sul palco dell'Ariston dopo Roberto Benigni è come girare un film porno dopo che l'ha fatto Rocco Siffredi...», hanno detto giovedì, prima di ridurre al minimo le loro gag. Sì, perchè la terza serata del Festival è stata marchiata a fuoco, come gli zoccoli del cavallo bianco in sella al quale si è presentato in teatro, dal monologo del grandissimo ”piccolo diavolo”.

Benigni è stato invitato per proporre una sorta di esegesi dell’inno d’Italia, nella serata celebrativa dei 150 anni dell’unità del nostro scassato ma sempre vivo Paese. Poteva far solo quello, o fregarsene e buttarsi sull’appetitosa - per un comico - attualità politica. Da artista sublime qual è, ha saputo far molto di più. Prima non ha risparmiato qualche battuta sulle insane passioni del presidente del Consiglio, poi ha snocciolato una lezione di storia coi fiocchi, di quelle che i professori nelle scuole non hanno mai saputo fare, tenendo incollati venti milioni di italiani allo schermo per quasi cinquanta minuti di monologo.

Un monologo sul senso dell’essere italiani che ha messo d’accordo tutti. Non a caso solo la Lega non ha gradito, forse anche per la lezioncina impartita a Bossi e ai suoi («Umberto, nel testo non è l’Italia a essere schiava di Roma, il soggetto è la vittoria...»). Un monologo sull’idea di un’Italia pulita che, nei giorni delle polemiche sull’istituzione della festa nazionale il 17 marzo (di nuovo solo la Lega contraria), è finito dritto al centro del dibattito politico, con tanto di complimenti di Napolitano e proposta di farlo vedere nelle scuole. Grande Benigni, davvero, definito da Mogol ”il nuovo Chaplin”.

Rimangono le canzoni, che teoricamente sarebbero la cosa più importante, in un Festival che si ostina a chiamarsi ”della canzone italiana”. Ripetiamo ormai da troppi anni che la miglior canzone italiana non frequenta Sanremo da troppo tempo, o meglio: lo frequenta solo parzialmente, a piccole dosi omeopatiche. E ripetiamo anche che, Morandi o non Morandi, nell’Italia dei nuovi media e delle nuove tecnologie è folle continuare ad allestire uno spettacolo televisivo - di questo si tratta - che dura cinque sere, cominciando all’ora di cena per protrarsi fino all’una di notte (poco più, poco meno).

Ma qui va ripetuto anche che l’«eterno ragazzo» ha saputo far bene il suo lavoro di direttore artistico, di selezionatore di artisti e canzoni. E il 61.o Sanremo ha brillato di una manciata di grandi interpreti e di belle canzoni. Su tutte, come si diceva, quella che ha vinto: ”Chiamami ancora amore” parla senza retorica della nostra povera Italia del 2011, rimanda alle cose migliori dell’ormai quarantennale repertorio di Vecchioni, che al Festival c’era già stato nel lontano ’73 con ”L’uomo che si gioca il cielo a dadi” e ha avuto l’umiltà di tornarci, in gara, a sessantotto anni. E vincere.

Dietro di lui, in un’ideale classifica di qualità, sicuramente i La Crus con l’atmosfera retrò di ”Io confesso”, elegante gioiellino che pesca nella nostra miglior tradizione cantautorale. Di certo Luca Madonia con Franco Battiato, raggiunti nella serata dei duetti dall’altra catanese Carmen Consoli, per proporre una versione da incorniciare della loro ”L’alieno”.

Da ricordare anche la freschezza folk di Davide Van De Sfroos (”Yanez”), la naiveté stralunata di Tricarico (”Tre colori”), la vittoria jazzata fra i Giovani di Raphael Gualazzi. Occasione sprecata invece per due brave interpreti provenienti da ”X Factor” come Nathalie e Giusy Ferreri, penalizzate da brani inadeguati. Mentre per Patty Pravo vale il discorso opposto: ”Il vento e le rose” non è una brutta canzone, anzi, ma è l’ultima diva che ormai non è più in grado di cantare senza stonare. Il resto? Da dimenticare. Come sempre.

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