DIONNE WARWICK
TRIESTE A volte i miti, per rimaner tali, devono essere difesi soprattutto da se stessi. O magari da certi manager che, per qualche migliaio di dollari in più, non esitano a mandare al massacro onoratissime carriere. È il caso purtroppo di Dionne Warwick, il cui tour italiano si è concluso ieri sera al Politeama Rossetti.
Esibizione francamente imbarazzante, cui i milletrecento spettatori triestini (età media piuttosto avanzata) hanno riservato un’accoglienza fin troppo generosa. Memore probabilmente, e giustamente, di quel che è stata Dionne Warwick in quasi mezzo secolo di carriera. E sorvolando sull’attuale stato dell’arte.
Affiancata dalla sua formazione tradizionale nota al grande pubblico (Katheline Rubicco al pianoforte, Renato Pereira alle percussioni, Todd Hunter e Valbert Lewis alle tastiere, Jeffrey Lewis alla batteria, Robert Short al basso e Ted Hunter alla chitarra: tutti in abito da sera), colei che è stata la «golden voice» del soul-pop internazionale ieri sera è sembrata la pallida controfigura di se stessa, della grande interprete che conoscevamo.
Entra in scena ancora claudicante per un infortunio al piede, che la costringe a calzare comodi zoccoloni. Raggiunge lo sgabello sistemato accanto al pianoforte, sorride, ringrazia per l’applauso, dice due parole di circostanza e attacca con «Close to you», raddoppia con «Walk on by», tenta di prendere il largo con «Anyone who had a heart» e «I’ll never fall in love again»... Gli applausi non si fanno attendere. Certo, quando uno va a pescare in un repertorio infinito, ricco di perle lucentissime firmate da un certo Burt Bacharach, la partita è comunque in discesa.
Ma Marie Dionne Warrick (è questo il suo vero cognome: quello d’arte nasce da un errore di stampa sulla copertina del primo disco, nel lontano ’62...) è diventata Dionne Warwick grazie a una voce da brividi. Una di quelle voci che quando partono non si fermano più. Scalano cattedrali, giocano con le note, formano ghirigori sonori da lasciarti a bocca aperta.
Ieri sera, nulla di lontanamente paragonabile a tutto questo. All’inizio sembrava quasi che cantasse con la voce trattenuta, con una sorta di metaforico freno a mano tirato. Poi, esattamente dopo mezz’ora (lo show è durato complessivamente un’ora e un quarto), quando sul finale di «A say a little prayer» al posto dell’acuto sono arrivati un paio di colpi di tosse, con conseguente stop e sorriso imbarazzato e tentativo di ripartire, beh, allora si è almeno capito che a Trieste Dionne Warwick - sia detto con rispetto per il mito da preservare - non era nelle condizioni di salire su un palcoscenico.
Poi è arrivato un altro classico, quella «Heartbreaker» donatale dai fratelli Gibb (i Bee Gees), con cui nell’82 scalò le classifiche di tutto il mondo: il ritornello affidato al pubblico, per evitare ulteriori passi falsi, fa virare l’atmosfera, che fino a quel momento aveva ricordato uno di quei vecchi night club di una volta, verso i lidi di un villaggio vacanze intento a dilettarsi nel karaoke.
Il medley dedicato alla musica brasiliana e un’altra manciata di classici («I know I'll never love this way again», «What the world needs now is love», «That's what friends are for»...) non potevano, in queste condizioni, risollevare la breve serata. Alla fine della quale, i calorosi applausi e la mezza standing ovation sono sembrati un dovuto atto di cortesia nei confronti del mito. Che, zoppicando, guadagnava la quinta più vicina.
Il progetto? Dare vita a una formazione orchestrale composta da persone in qualche modo imparentate con il disagio. Il disagio psichico, quello legato alle dipendenze, ma anche quello che nasce più semplicemente dalla solitudine. E assieme a loro persone che invece quei problemi magari non li hanno, ma semplicemente lavorano per alleviare quel disagio. Tutti uniti dall'amore, dalla passione, dalla frequentazione musicale.
«L'idea - spiega Peppe Dell'Acqua, direttore del Dipartimento di salute di mentale di Trieste - mi è venuta guardando all'Orchestra di Piazza Vittorio, la formazione multietnica nata nel quartiere romano dell’Esquilino, che da anni porta in giro la grande ricchezza di suoni e musicisti provenienti da mezzo mondo. Ebbene, ho pensato che qualcosa di simile può nascere anche a Trieste, città dove la formazione musicale di base è molto diffusa...».
Qui, dice ancora Dell’Acqua, che <CF><CP>assieme a Franco Rotelli può essere considerato l’erede di Basaglia, «per molti ragazzi suonare è come giocare a pallone: una cosa naturale, che si impara da piccoli e non si scorda più. Merito dei ricreatori, ma anche delle comunità carsoline dove c’è la tradizione del canto corale, della fisarmonica, della chitarra, degli strumenti a fiato suonati in compagnia».
Su questo filone s’inserisce lo specifico che riguarda il disagio, mentale e non solo. «Nei nostri Centri di salute mentale - prosegue Dell’Acqua - abbiamo molte persone che sanno suonare uno strumento. Magari suonavano da giovani, e poi hanno smesso, per colpa della malattia o semplicemente perchè le cose della vita hanno voluto così. E ho notato che esistono anche delle piccole eccellenze, gente con trascorsi musicali di un certo livello, storie di gruppi degli anni Sessanta e Settanta, o a volte ancor più lontane nel tempo».
Che poi nella storia della rivoluzione basagliana la musica ha sempre avuto un ruolo importante. Come dimenticare, infatti, i concerti nei primi anni Settanta, in quello che era ancora il manicomio di San Giovanni: gli Area, Ornette Coleman, Giorgio Gaslini, Gino Paoli... «Sì, la musica è stata una costante nel nostro lavoro - ammette Dell’Acqua -, quei giovani che negli anni Settanta entravano per la prima volta a San Giovanni per seguire i concerti ci permisero di entrare in contatto con la città. E non a caso quel primo contatto avvenne con la parte più giovane della popolazione, quella priva di pregiudizi, aperta al confronto con l’altro. Ricordo i grandi concerti, ma anche le esperienze dei laboratori teatrali, il cinema...».
Ma torniamo al 2008. Anno del trentennale della Legge 180 (approvata dal parlamento il 13 maggio 1978) ma anche del centenario del manicomio di San Giovanni (aperto il 4 novembre 1908). «Tre utopie che si incontrano: quella positivista del parco di San Giovanni; quella basagliana; quella di oggi, con il parco che ritorna alla città e diventa luogo di incontro, di incrocio, di confronto...».
Anche per celebrare queste tre utopie Dell’Acqua e i suoi stanno reclutando persone che sappiano suonare o cantare. «Per ora è girata una circolare nei nostri ambienti di lavoro: i Centri di salute mentale, il Sert, le cooperative, le associazioni con cui siamo in contatto. In pochi giorni abbiamo ricevuto già una ventina di adesioni, ma sogniamo di arrivare a un centinaio...».
Poi, gli organizzatori già lo sanno, arriva il difficile. Ci vogliono una grande sala prove («non necessariamente nel comprensorio di San Giovanni: stiamo pensando anche a un capannone o a un loft in centro...»), uno o più musicisti che coordinino il lavoro, che sostengano questa iniziativa. E magari un progetto cui finalizzare l’idea.
Sottolinea Dell’Acqua: <CF><CP>«Sarà l’orchestra dei ”matti” perchè questa parola qui è stata sdoganata due volte: la prima con il lavoro che ha portato alla chiusura del manicomio, la seconda attingendo al dialetto triestino, nel quale la parola ”matto” indica semplicemente una persona...».
«E la musica - prosegue lo psichiatra - diventa allora mezzo per veicolare la cultura dell’accoglienza, la lotta al pregiudizio. Ma anche per stimolare scambi, rinsaldare legami sociali, promuovere conoscenza e consapevolezza attorno alle più svariate esperienze che accadono, lottare contro la solitudine».</CP></CF>
Per l’Orchestra dei matti di Trieste ci sono già dei (possibili) testimonial illustri: da Simone Cristicchi, che ha vinto il Sanremo 2007 proprio parlando di «matti», e che l’estate scorsa in occasione del concerto in piazza Unità ha visitato il comprensorio di San Giovanni, all’amico di sempre Gino Paoli, che negli anni Settanta fu tra i primi all’appello dei «basagliani».
«Ma ho in programma - conclude Peppe Dell’Acqua - anche un incontro con Mario Tronco (componente degli Avion Travel e ”inventore” dell’Orchestra di Piazza Vittorio - ndr). Sarebbe bello organizzare, magari per il Natale prossimo, o a Capodanno, un concerto a Trieste della sua orchestra e in quell’occasione presentarci alla città. Con la nostra orchestra, l’Orchestra dei matti di Trieste...».
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