domenica 6 gennaio 2008

PAOLO ROSSI

TRIESTE Ormai Paolo Rossi passa più tempo a Trieste (dove sta anche facendo «un mezzo pensierino di metter su casa»...), che nella sua Milano. L’attore non ha fatto in tempo a concludere il «Cantiere sul teatro popolare» organizzato da Bonawentura e dal Teatro Miela in collaborazione con il Comune di Muggia e la Regione Friuli Venezia Giulia, svoltosi fra settembre e dicembre, che è già tornato alla base. Stasera sarà sul palco del Teatro Miela con un’altra scommessa.

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Stasera alle 21, in quel Teatro Miela dove ormai è di casa, si terrà infatti una «prova aperta» del suo nuovo spettacolo «Ubu re d’Italia», sua personalissima versione del celebre «Ubu Roi» di Alfred Jarry, testo amato dai teatranti di tutto il mondo per le sue potenzialità simboliche e politiche.

«Ma non aspettatevi una sorta di anteprima - mette le mani avanti Paolo Rossi, monfalconese di nascita, milanese d’adozione, classe 1953 -, si tratta solo di una ”prova aperta” dopo appena dieci giorni di lavoro. Lo spettacolo sta nascendo ora. Saranno importanti le anteprime che faremo a partire dal 20 gennaio. Mentre la prima vera e propria credo che si terrà il 20 febbraio a Napoli...».

Per lei le anteprime sono particolarmente importanti...

«Sì, recitare con un pubblico davanti cambia completamente le cose, per chi sta su un palcoscenico. Almeno questo è il mio modo di intendere il teatro. Il pubblico delle prove, delle anteprime ha un piccolo grande privilegio: cogliere il brivido dell’atto creativo all’inizio, nell’atto del suo nascere. Poi, quando uno spettacolo va in scena, quel brivido viene a mancare, sostituito magari da altre cose».

L’Ubu Re è sempre stato una maschera del potere. Un pretesto per parlare anche dell’Italia di oggi?

«In un momento così confuso, in cui le prospettive e le aspettative di un cambiamento si rivelano sempre più fragili, affido a Padre Ubu - uno dei personaggi più esemplari del teatro, maschera grottesca e arrogante del potere - il compito di interpretare i giorni nostri, di denunciare la stupidità delle convenzioni sociali e il vuoto culturale e politico della nostra realtà».

Quindi stavolta non si ride...

«No, nello spettacolo si sarà anche da ridere, assieme a momenti commoventi, drammatici. Nel teatro proprio come nella vita. Jarry nel 1896 (se ricordo bene, con le date sono sempre stato una frana...) mise in scena a Parigi una commedia satirica originariamente pensata come uno spettacolo di marionette. Il mio sarà un viaggio nel cuore di quel burattino, consapevole del fatto che oggi la vera provocazione è cercare un palpito di fronte a un mondo meccanico».

Come sarà allora questo «Ubu Re d’Italia»?

«Non tenterò di far un'ulteriore o più moderna versione dell'opera di Alfred Jarry, creatore non solo di questo burattino ma di romanzi, saggi e primo padre della patafisica. L'Ubu è un classico ma stavolta non sarà come con Moliere, Shakespeare, Rabelais, o con lo stesso spettacolo sulla Costituzione. Quelli erano pretesti per esercizi d’attore o di satira. Lì ho raccontato una mia versione, ho giocato o cercato un pretesto per ridisegnare quel mondo, che si consuma in una sera. Non realizzerò quindi il mio Ubu. Nemmeno dirò: questo è l'Ubu».

Bensì?

«Con la Compagnia BabyGang - Federico Bonaconza, Carolina De La Calle Casanova, Paolo Faroni, Valentina Picello, Woody Neri, assieme a Emanuele Dell'Aquila, Davide Palla e Irene Serini - metterò semplicemente in scena qualche domanda: che cos'è L'Ubu? Chi era Jarry? E cosa c'entrano l'Ubu e Alfred Jarry con me e l'Italia?».

Si è già dato delle risposte?

«No, raccontare storie che chiudono con una domanda è per noi il teatro popolare. E l'ultima domanda che mi faccio e porrò nel mio lavoro è: quando il creatore di un burattino muore, il suo cuore a chi va?».

Oltre alla BabyGang chi c’è con lei?

«Lo spettacolo l’ho scritto con Carolina De La Calle Casanova, mi hanno aiutato nella messa in scena Elio De Capitani (che si definisce "il grande tormentatore maieutico") e Maria Consagra. Poi ci sono le canzoni scritte appositamente da Vinicio Capossela, le scene e i costumi di Emanuele Crotti, la consulenza - per l'elaborazione di un linguaggio - dello scrittore Giampaolo Spinato e del mio ”consigliere maccheronico” Riccardo Piferi».

Il «Cantiere» muggesano che cosa le ha lasciato?

«Beh, posso dire che questo progetto è nato all’interno di quel Cantiere. Quei tre mesi di lavoro sono stati il perfezionamento della nostra metodologia. Le sorprese venivano fuori quasi ogni giorno...».

Senta, ma ormai possiamo dire che lei vive a Trieste...

«Non ancora, ma quasi... Ci sto facendo un mezzo pensierino. È da quattro anni che lavoro a Trieste, una sorta di ritorno al passato per trovare il futuro. Qui si lavora meglio che a Milano: c’è più tensione creativa. Chissà, forse è dovuta al confine che c’era, è caduto ma in qualche modo rimane ancora nell’aria, nell’odore, a livello di sensazioni».

E che odore sente, oggi, nella Trieste dove i suoi genitori la portarono a tre o quattro anni in piazza Unità....?

«Quella volta ricordo che mi fece impressione questa grande piazza che si apre sul mare. Ricordo che c’erano tante navi, tante luci... Oggi sento l’odore del cambiamento. Di qualcosa che bolle in pentola. Sento parlare di grandi potenzialità, di grandi opportunità: cose che si accompagnano di solito ai grandi rischi. La ricetta è sempre quella: tornare al passato per trovare il futuro...».

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