martedì 10 giugno 2008

KNOPFLER 2


dall’inviato

CARLO MUSCATELLO




CODROIPO Eccolo, finalmente, il sultano dello swing. L’eroe della chitarra che trent’anni fa stregò il mondo della musica con i suoi Dire Straits, e che da quando si propone come solista ricrea le stesse atmosfere eleganti e fascinose di allora. Mark Knopfler appare sul grande palco di Villa Manin alle 21.30 e sembra quasi un signore capitato lì per caso, aria da turista inglese con digitale a tracolla per immortalare le bellezze dell’antica dimora dell’ultimo doge di Venezia. E invece a tracolla l’ex ragazzo di Glasgow (ad agosto ne fa cinquantanove) ha la sua fidata Fender rossa, quella che suona senza plettro, applicando la tecnica del fingerpicking nata per l’acustica. Gli anni passano, ma il suo modo di accarezzare le sei corde rimane lo stesso.

Due accordi, qualche verso sussurrato nel microfono con la caratteristica voce roca che a tanti, trent’anni fa, fece ricordare il riconosciuto maestro Bob Dylan, e la magia si ricrea come per incanto. La magia di una musica che rifugge caos, velocità eccessiva dei nostri tempi moderni, per recuperare il gusto della lentezza, della classe, della sobrietà.

Oggi il vecchio Mark esplora gusti e generi musicali lontani da quelli che lo hanno reso immortale con i Dire Straits. Arriva a mischiare ritmiche di valzer e sonorità irlandesi, tentazioni country e richiami al folk. Il suo ultimo lavoro solista, «Kill to get crimson», uscito l’anno scorso, è intimista, introspettivo, distante dall'energia rock sprigionata un tempo.

Ed è proprio dai lavori solisti che pesca i primi brani in programma: ”Cannibals”, ”Why aye man”, ”What it is”, ”Sailing to Philadelphia”... Ma l’uomo è saggio. Sa che il suo pubblico lo ama ma non ha ancora elaborato completamente il lutto dello scioglimento della storica band. Dunque propone una scaletta che sì, pesca a piene mani dai lavori solisti: l’ultimo ma anche i precedenti, da «Golden heart» a «Sailing to Philadelphia», da «Shangri-La» a «The ragpicker’s dream». Ma in mezzo ci infila gli antichi cavalli di battaglia: «Romeo and Juliet» (primo boato della serata, alle 22.10) e «Sultans of swing» (secondo boato), «Telegraph road» e «Brothers in arms». Giusto per scaldare la serata poco estiva. E consolare i nostalgici dell’epopea targata Dire Straits. Che infatti dimostrano di gradire assai.

Sul palco, sopra le teste dei nostri eroi, una sorta di enorme disco sembra essere messo lì a far da tetto alla scena. Poi, d’un tratto, il grande cerchio scende di traverso, quasi a novanta gradi, e si rivela per quel che è: la cassa di un’enorme chitarra stilizzata che resta lì, a ricordare al pubblico qual è l’oggetto, prim’ancora che lo strumento, che ha cambiato la vita al vecchio Mark e non soltanto a lui.

Fra un brano e l’altro, l’ex insegnante di inglese (e l’aria da prof gli è un po’ rimasta...) parla poco. Giusto due parole di circostanza. Con voce quasi flebile. Niente urla, niente grida. Nessuna concessione al rituale - e alla retorica - dei concerti rock. Capelli corti e sempre più radi, jeans e maglietta e camiciola (apparentemente) da poche sterline, mostra un approccio rilassato, quasi impiegatizio alla serata che conduce comunque in porto con mestiere e classe, oltre che sobrietà.

In un mondo della musica che vive da sempre di eccessi, il figlio dell’architetto ebreo ungherese e dell’insegnante inglese è l’antitesi delle star che popolano da mezzo secolo la scena pop e rock. Stravaganze, esagerazioni e chiassosità sono stati e sono l’emblema dei suoi colleghi, da Mick Jagger a Madonna, da Elton John a Robin Williams, da David Bowie a chi volete voi. La sua cifra stilistica sta all’opposto. Fuori da ogni moda e quasi fuori dal tempo, Knopfl</CF></CP></IP></EL><IP0>er è l’antidivo per eccellenza, l’emblema dell’uomo comune. Quasi un signore della porta accanto che, magari dopo una giornata di lavoro, prende in mano la chitarra e delizia gli ospiti con una tecnica sopraffina, con classe ed eleganza.

Racconta storie di gente comune, più sullo stile dei «looser» americani che delle pop song da classifica. Storie di vita, fatica, dignità. Storie di lavoratori stanchi ed emigranti nostalgici. Il tema del viaggio, della lontananza. Mettendo assieme passato e presente, pop e country, rock e blues, musica tradizionale e canzone. Lo faceva trent’anni fa, mentre in Inghilterra impazzavano new wave e disco, e il punk faceva piazza pulita di perbenismi e luoghi comuni. Lo fa oggi, rifuggendo una scena sempre più tecnologica, elettronica e digitale, e proponendo invece i suoi affreschi folk-rock con quell’approccio soffice e appassionato che non lascia indifferenti le menti e i cuori sensibili.

La notte scende sull’antica dimora ducale, le note salgono verso un cielo ormai nero. I settemila che affollano l’arena si gustano le due ore di country e rock, permeate di arrangiamenti blues, che il vecchio rocker gentile - con la band capitanata dal fido collega e amico Guy Fletcher - propone in questa sua seconda vita musicale. Con gli anni è diventato una sorta di menestrello che scava nelle tradizioni - percorso analogo a quello di Springsteen - e le mischia con i generi frequentati in passato.

A Villa Manin, due ore di grande musica diluita in una ventina di brani, vecchi e nuovi. Buon successo di pubblico, per il concerto - proposto da Euritmica - che ha aperto l’estate musicale del Friuli Venezia Giulia. Domani sera, sempre qui a Passariano, arriva un altro grande della chitarra: Joe Satriani. Insomma, la festa è cominciata. E può continuare.


 

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