giovedì 26 giugno 2008

DA UN BLOG


Carlo Muscatello sul “Piccolo” di Trieste ha stroncato l'ultimo disco di un sempre più supponente De Gregori. Stroncatura esemplare, cioè senza mezze misure: il disco è brutto e spiego perchè è brutto, affondando la lama della critica. Che brilla in quanto tale, cioè virtuosismo di antibuonismo motivato e dettagliato, ormai rimosso più che dimenticato. È raro trovare una critica in sé, ovvero una recensione negativa, in un sistema di sinergie commerciali che ha gettato la figura del giornalista, come quella del critico in una crisi d'identità irreversibile: vuoi perchè i giornalisti fanno i giornalisti in un mare di altre attività, vuoi perchè tutti gli altri, nel mare delle loro occupazioni, si dilettano pure di giornalismo. Il malvezzo dei giornali musicali di far scrivere gli stessi artisti che dovrebbbero poi “criticare”, è noto. Come è già storia la tendenza dei comici a fare i giornalisti, con l'effetto che poi i giornalisti fanno i comici. Altro fenomeno deleterio, i magistrati che si scoprono romanzieri. Oggi non si contano più, ad aprire la strada un disinvolto De Cataldo, che ha trasportato la Banda della Magliana dal fascicolo alla fiction, ottenendo i risultati migliori. Il che ha fatto di De Cataldo un uomo potente in molti modi: come giudice che può libertariamente farti passare brutti momenti; come scrittore di successo, inserito nella casta editoriale; come “giornalista”, ovvero informatore, che esalta ed è esaltato dai suoi pari. Quindi, su De Cataldo non si può. Che poi io debba gradire, o subire, l'invadenza di un magistrato capace di simile scioltezza, è un altro paio di maniche: la garanzia della sua equidistanza da tutti i mondi commerciali frequentati, a mio parere in conflitto d'interessi con la sua funzione, che è di giudicare, di più, di accusare, può darmela solo lui stesso, è autoreferenziale. E non mi consola il “così fan tutti” di prammatica, la scoperta che via via si sono aggiunti i Carofiglio ed altri colleghi sempre più sedotti dalla vanità: per me, cavar fuori romanzi dalle inchieste seguite non è discutibile: è eticamente sbagliato, per più di una ragione. Altro è scrivere un libro di o sul diritto, che rientra nelle competenze e nelle funzioni di un magistrato. Altro è trasformare in fiction, in finzione, inchieste, fatti reali e direttamente seguiti, e che diventano, tra l'altro, fonte di guadagno. Mi pare incredibile questa vena narrativa prorompente, quasi obbligatoria in chiunque indossi una toga.

C'è una crisi di identità che avvolge tutti. Il comico-informatore, alla Grillo, vive su questa ambiguità di fondo: quando fa comodo sono uno che informa, quando mi accorgo di averla fatta fuori dal vaso torno ad essere uno che scherza. Col risultato che le mie responsabilità non voglio prendermele mai. Più in generale, se il mercato impone opere buone per tutte le stagioni, come faccio a stabilire canoni etici di verità, di attendibilità, di responsabilità? Gomorra, ancora lei, è stato etichettato come inchiesta ma anche romanzo ma anche sceneggiatura: troppo comodo. E pericoloso: non si coglie più il limite tra ciò che è e cio che non è ma potrebbe essere. L'altra sera ad AnnoZero dove si glorificava il divo Sorrentino che ha fatto un film su Andreotti (per poi parlar male di Berlusconi). Gli argomenti suonavano a tratti deliranti: la Bonaiuto che spiegava di non avere idea di come fosse la moglie di Andreotti, proverbialmente riservata, e dunque d'essere andata a senso, “perchè un film è un'opera di invenzione”, insomma soccorrono le licenze poetiche. Altri con orgoglio informavano che molti episodi, come quello di Andreotti che tiene la mano alla moglie mentre guardano in televisione Renato Zero, sono inventati di sana pianta. Si rivendicava la prevalenza della fiction su un'opera di denuncia. In studio, dagli apostoli dei fatti nudi e crudi, alla Travaglio, nulla ostava. È giusto tutto questo? Per il mercato sì, perchè oggi un film non è più un film, è giusto un capitolo di una sinergia che prevede il massimo sfruttamento di un'opera intellettuale: libro-sceneggiatura, film, riduzione televisiva, versione teatrale, merchandising, figurine, fumetti e così via. Ma per la comprensione e l'attendibilità dei fatti? Il divo Sorrentino, in funzione di regista, ha spiegato: la cosa più gratificante è che il film lo vedano i giovani che di Andreotti non sanno niente. Sì, ma dopo il suo film ne sapranno davvero di più, oppure vivranno su un'idea mitizzata, sceneggiata? Forse non è un caso che i veri film di denuncia, come quellie di Giuseppe Ferrara, hanno avuto sempre vita maledetta, censure, ostracismi. Mentre le fiction alla Sorrentino o alla Garrone vanno a Cannes dove fanno incetta di tappeti rossi. Che, per un'opera di denuncia, coraggiosa, scandalosa, pare un ossimoro: davvero dovevamo attendere Il Divo e Gomorra per capire l'impatto di Andreotti e della Camorra nel nostro Paese? Davvero nessuno se n'era mai occupato prima? Ma su Andreotti, per dire, bastava riscoprire gli articoli, terribili, di Mino Pecorelli, giornalista scomodo fatto fuori (alla vigilia di nuove, compromettendi rivelazioni su Andreotti, che ha subito un processo per la sua morte, poi conclusosi con l'assoluzione). Sulla camorra i testi si sprecano, ma si è imposto il meno rigoroso, quello concepito fin dall'inizio per una sinergia, uno sfruttamento commerciale massificato.

Torniamo ai cantautori supponenti. Si può dire che Tal dei tali è ormai un pallone sgonfiato? Che questo o quel guru ha perduto lo smalto? Che De Gregori ha fatto un brutto disco? Che Ligabue con la sua raccolta “primo tempo” non ha venduto quattrocentomila copie ma le ha imposte ai negozianti che se le ritrovano tutte in magazzino, invendute, e adesso infierisce pure il secondo tempo? Si può dire che, dato un ascolto al nuovo disco di Vasco Rossi, si conferma una situazione inquietante: un brano, in apertura, bello, o anche molto bello, uno dei suoi; e il resto di una mediocrità imbarazzante, che avverti fatto appositamente per le pubblicità, per le sigle dei telefonini, che capisci assemblato da computer manovrati da burocrati della creatività informatizzata? No, non si può dire perchè come minimo ci rimetti il posto: i giornali su cui i critici scrivono, sono gli stessi che sponsorizzano le tournée degli artisti da criticare. D'altra parte, il livello di intimità con il potere sinergico, artistico, industriale, commerciale, pubblicitatio, è tale per cui nessun giornalista ha più voglia di complicarsi una vita che può benissimo essere splendida, con un minimo di elasticità e di entusiasmo.

Oggi i dischi si distinguono per non essere più niente di tutto, ed essere tutto di niente. Suoni, temi, proposte hanno da essere “internazionali”, cioè buoni per tutti i continenti, per i gusti globalizzati di un pubblico globalizzato. Gli artisti la spacciano per creatività senza confini, ma la vera ragione è che il prodotto deve vendere in ogni dove. Così ascoltiamo improbabili surrogati di ritmi e influssi culturali che non ci appartengono, come l'inverosimile terzomondismo social-musicale di un Jovanotti.

Ci sono sedicenti critici da blog, frustrati per non appartenere all'èlite della critica autentica, seria, culturalmente solida, oggi in via di estinzione, che si confondono con gli autori che dovrebbero recensire, ostentano una provinciale familiarità, li chiamano amichevolmente per nome, i loro spazi in pagina o in rete sono volgarissime vetrine, consigli per gli acquisti, annacquati da discussioni che degenerano nel gossip, nel tifo, nella diffamazione e l'anatema verso i miscredenti. Puntualmente questi pseudocritici da fumetto fanno libretti, che finiscono recensiti, cioè esaltati, dagli stessi autori che dovrebbero essere recensiti, cioè criticati, dai sedicenti critici in realtà loro amici, complici, sodali: così il cerchio della mafia pubblicitaria si chiude. Come fai a parlar male di uno che, alla fine è un collega, magari un compagno di scuderia, uno che fa quello che tu fai, mentre tu fai quello che fa lui e insieme vi reggete bordone? Difatti di critiche non si vede più neppure l'ombra. Quando ne capita una, chi si è permesso è indotto a vergognarsene, come di uno scandalo intollerabile; l'effetto generale, inoltre, è di spaesato scetticismo, come per certi misteriosi segnali provenienti dall'oltretomba.

Sì, oggi i giornalisti (e i critici) sono sull'orlo di una crisi d'identità. Se disgraziatamente si ricordano di chi sono, e di cosa stanno lì a fare, cioè criticare e non incensare, scatta subito la crisi di nervi. Per il criticato, giustamente offeso da tanta ingratitudine.


Massimodelpapa

1 commento:

  1. Carissimo, più che condivisibile. Però, scusami, qualche colpa l'avete anche voi. Voi che ogni giorno ci aggiornate sugli appuntamenti, che ne so, di Magris (adesso va di moda Pahor, meglio per lui), voi che ci rifilate c'è quel che c'è, la Longo inclusa. Non ho letto tutti i commenti, condivido solo le tue reazioni a un brutto cd. Condivido e apprezzo. Ciò detto non condivido per nulla il pianto greco di chi per lavoro recensisce qualcosa. Se fa cagare, fa cagare e basta. Al limite non scrivi o ti rifiuti di farlo. Da autrice ho bisogno di questa sicurezza. Da giornalista la pretendo.

    Bacini e bacioni

    Francesca

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