domenica 14 marzo 2010

GUCCINI


Oltre quattromila giovani di tutte le età hanno affollato ieri sera il PalaTrieste per il concerto di Francesco Guccini. Camicione rosso portato fuori dai jeans, tanta voglia di chiacchierare (”se non parlo, non mi diverto...”), il giovanissimo settantenne di Pàvana apre così: ”Come va, bricconcelli...?”.

Lo guardi, imponente sul palco, con quell’aria da vecchio oste saggio, e ti chiedi com’è possibile cominciare ogni concerto, ormai da tanti anni, con una canzone del ’67, per poi chiuderlo, dopo un paio d’ore abbondanti, con una del ’72, e regalare al pubblico ogni sera uno spettacolo sempre nuovo e originale e intelligente.

Ogni volta che capita di rivederlo e risentirlo dal vivo, ci si ricorda con sollievo che - fra la casta e il casting - esiste anche un’altra Italia. Intelligente, onesta, spesso colta, seria eppur ironica. Lontana dal cattivo gusto e dalla volgarità che sembrano essersi impadroniti del Paese. Allergica alla cricca di affaristi che stanno facendo scempio delle istituzioni e della democrazia.

Lui, cantautore storico ma da tempo anche scrittore (è appena uscito il suo ”Non so che viso avesse”, dal celebre verso che apre la sua ”Locomotiva”, che è la sigla finale dei suoi concerti), da una decina d’anni si è ritirato nella vecchia casa di famiglia del suo paese nell’appennino toscoemiliano. Scende ogni volta che ne ha voglia, e tiene un paio di concerti al mese in palasport sempre affollati non solo da cinquantenni nostalgici degli anni Settanta, ma anche da ragazzi che non erano nati quando lui era già uno di successo. E che probabilmente trovano in lui quel punto di riferimento etico e morale, prim’ancora che culturale e politico, che altrove ormai da tempo è merce rara.

Anche ieri sera ha attaccato, come si diceva, con ”Canzone per un’amica”: «Lunga e diritta correva la strada...», quasi una sigla, che stava nell’album d’esordio ”Folk Beat n.1”, del ’67, col titolo ”In morte di S.F.” poi cambiato.

Seguono canzoni - preferibilmente d’annata - e chiacchiere a volontà. Fra le prime: ”Il tema” (da ”L’isola non trovata”, del ’71), una ”Noi non ci saremo” rock (ancora dall’album d’esordio, con quei toni quasi apocalittici di un futuro che nel ’67 sembrava lontano...), le superbe ”Canzone delle osterie di fuori porta” e ”Vedi cara”, la crepuscolare ”Canzone quasi d’amore” (da ”Via Paolo Fabbri”, del ’76).

Fra le chiacchiere, condite sempre da un sorso di vino (”scusate, ma recentemente ho avuto momenti di depressione bruttissimi...”, e chi vuol intendere intenda), molti riferimenti all’attualità. Sono tempi duri, riflette il nostro, è in atto un complotto giudaico comunista e togato. Caro Silvietto nostro, anche questo Milan: stava per segnare sei o sette gol, ma poi ci si sono messi di mezzo quei radicali, tutti lì sulla porta... Poi c’è Ignazio Benito Larussa, che aggredisce quel giornalista freelance. Per fortuna abbiamo altre soddisfazioni, come il principe della casa regnante.

Arrivano anche la classicissima ”Incontro” e ”Farewell”, ”Ti ricordi quei giorni” e la triestina ”Eskimo” (ispirata all’indumento comprato per diecimila lire al mercato di Ponterosso, duranta la naia a Banne nel ’63...), ”Cirano” e una trascinante ”Don Chisciotte”, a due voci con il chitarrista Juan Carlos Flaco Biondini.

I brani nuovi vengono inseriti sul canovaccio con misura e giudizio. Guccini non è tipo da privilegiare le ultime creazioni. È anche vero che se lo può permettere: in mezzo secolo (”la prima l’ho scritta nel ’58”, confessa) ha composto tante e tali belle canzoni, che per lui costruire la scaletta di un concerto non è mai difficile.

Comunque ieri<IP0> le novità, che prima o poi entreranno in un nuovo album, sono stati due, verso metà concerto: ”Su in collina”, ballata che narra di un episodio della Resistenza (”Oggi c’è bisogno di parlare di Resistenza...”), e ”Il testamento del pagliaccio”, quasi una canzone satirica, e autoironica, dedicata al popolo italiano che ha sempre la memoria troppo corta. «Il pagliaccio - avverte Guccini - siamo tutti noi...”.

Si va verso il finale. Ma c’è ancora tempo per le antiche ”Il vecchio e il bambino”, ”Auschwitz” - scritta nel ’64, pubblicata nel ’67 - e poi tutti in piedi per ”Dio è morto”, per ”Un altro giorno è andato”. Fino al finale già scritto mille volte, ma non per questo meno emozionante: ”Trionfi la giustizia proletaria...”.

Con Guccini, sul palco, il solito grande gruppo i cui punti cardinali sono sempre, oltre al citato Biondini, Vince Tempera, Ellade Bandini, Antonio Marangolo. Che si godono assieme al capobanda l’ennesimo affettuoso trionfo, tributato per l’occasione dal pubblico triestino. Per una volta caldissimo.

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