domenica 14 marzo 2010

GUCCINI intervista


«La neve si è sciolta ma adesso dicono che torna il freddo, potrebbe nevicare di nuovo. Sì, è stato un inverno rigido, non c’eravamo più abituati. Mi son beccato anche un raffreddore che proprio non vuol passare...».

Francesco Guccini - il cui ”never ending tour” fa tappa venerdì 12 al PalaTrieste - risponde dal telefono fisso della sua casa di Pavana, appennino toscoemiliano della sua infanzia, dov’è tornato a vivere da dieci anni.

«Ci si adatta a tutto - riflette il cantautore e scrittore - dunque anche ai ritmi più lenti del paese di montagna. Arrivasse la primavera si potrebbe anche vivere un po’ di più all’aria aperta. Anche se gli anni (settanta a giugno - ndr) cominciano a pesare...».

Per questo ha appena scritto un’autobiografia?

«Chissà. In passato avevo già raccontato parti della mia vita ma in forma romanzata. L’infanzia pavanese in ”Croniche epifaniche”, l’adolescenza a Modena negli anni Cinquanta in ”Vacca d’un cane”, la Bologna vivace e curiosa dei Sessanta in ”Cittanova blues”...».

Cos’era rimasto fuori?

«Qui ci sono episodi diversi, storie non raccontate mie e della mia famiglia. Che poi, come diceva Borges, ogni scrittore è sempre autobiografico. Questo è un racconto per situazioni, per persone, per luoghi».

Stavolta non c’è Trieste.

«Ma non dimentico quel ’63 passato nella caserma di Banne. Non dimentico il ”primo eskimo dettato solo dalla povertà” comprato al mercato di Ponterosso, il trenino che da Opicina ci portava in città, le passeggiate in viale per conoscere le ragazze...».

Cosa la colpì della città?

«Tante cose. Intanto un clima di maggior libertà. Le donne che al bar bevevano senza problemi il calice di vino, anche da sole. Cose che nella pur liberalissima Bologna non erano concepibili: da noi una donna si sarebbe fatta ammazzare, piuttosto...»

E poi?

«Certi sapori, la porcina con i crauti e il kren. Un naturale mistilinguismo: sul Carso era naturale sentir parlare sloveno, in città non era infrequente ascoltare colloqui in austriaco. E ancora quel vostro dialetto, così musicale, davvero bello».

Cose che ha ritrovato?

«Quando torno trovo ovviamente la città molto cambiata. La caserma di Banne mi dicono non esista più. Anche il clima del viale è diverso. Ma forse, al di là dei cambiamenti che tutte le città hanno a distanza di tanti anni, la verità è che siamo cambiati noi. E tutto ci sembra diverso».

Ha aderito alla manifestazione di sabato scorso a Roma, intitolata ”Basta! La legge è uguale per tutti”.

«Mi sembrava il minimo. Sono molto preoccupato da questa situazione che sta vivendo il Paese. Oltre a tutto quello che sappiamo, quest’ultima goccia della sospensione dei talkshow politici mi sembra un episodio di censura non degno di una democrazia occidentale. Ma stiamo scherzando? Qui si impedisce alla gente di conoscere, di essere informata».

Il caos delle liste per le regionali?

«Beh, lì siamo al ridicolo. Episodi che fanno ridere, sembra tutto impossibile, vien da pensare che ci sia qualcosa sotto. Anche quel tale, a Roma, che doveva consegnare la lista con le firme ma dice prima che era andato a mangiare un panino e poi che dovevano cambiare dei nomi della lista. A proposito di nomi, mi sembra che il tipo si chiami Milioni. Nomen omen...».

Lei allude...

«Non è colpa mia se c’è un partito che ha un padrone che comanda. Gli affaristi ci sono sempre stati, ma qui ormai hanno in mano le istituzioni. C’è tutta una concezione del potere che è diversa dalla democrazia».

Anche la sua Bologna, con le dimissioni del sindaco, non ci fa una bella figura.

«Vero. Ma almeno Delbono si è dimesso. Ha fatto un errore, lo ha riconosciuto e ha dato le dimissioni. Certe cose purtroppo avvengono ormai da una parte e dall’altra, c’è uno svilimento della vita pubblica, ma rimango convinto che a sinistra ci sia maggior coerenza e onestà».

Delbono è caduto su una vicenda emersa dal gossip. Lei a gossip come sta...?

«Malissimo, grazie. Non sono personaggio da gossip. Io delle cose mie racconto poco o niente. Giusto le orchestre, i concerti, poco di più. L’altra sera, a una presentazione del libro a Bologna, ho detto che il gossip me lo tengo buono per il prossimo libro. Ma era ovviamente una battuta...».

Sanremo l’ha visto?

«Tre secondi e due decimi. E se vuole chiedermi del principe le dico subito che l’ho evitato. Poi ci hanno pensato i giornali, a farmi sapere tutto quello che era successo: la canzone, il televoto, le polemiche... Stiamo tornando al dopoguerra, quando i rotocalchi avevano i componenti di casa Savoia in copertina una settimana sì e una no. Che vuole: la gente si appassiona».

E dei talent show non mi dice nulla?

«Fanno il loro gioco, il loro mestiere. La cosa non mi interessa più di tanto. È che le case discografiche sono in crisi, non hanno mezzi né potere. E dunque si affidano a questi programmi per trovare personaggi nuovi. Bisogna vedere poi se durano».

Ha visto che Dalla e De Gregori sono tornati assieme?

«Ho letto. I duetti sono di moda. Ma sono situazioni che funzionano solo se nascono per caso. Secoli fa, a tavola, si era parlato di fare una cosa assieme con Fabrizio De Andrè. Ma poi purtroppo non se ne fece nulla».

Nel libro parla anche di chitarre. Quante ne ha?

«Solo cinque, anzi sei, compresa una costruita con delle corde basse su un altro manico. Un periodo amavo le Martin, ora suono una giapponese montata in Francia. Ma sempre acustiche. L’elettrica la suonavo ai tempi delle sale da ballo. Ed è rimasta a mio fratello, che l’ha appesa al muro...».

Il concerto lo comincia sempre con ”Canzone per un’amica”?

«Certo. E lo chiudo ancora con ”La locomotiva”. Come sempre...».

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