mercoledì 31 marzo 2010

ADDIO A NICOLA ARIGLIANO


«Quand’ero ragazzo nelle case non c’era il bagno, dunque si andava a fare i bisogni nei campi. Ma dalle nostre parti era pieno di ortiche, e si diceva: ”Squinzano (il suo paese di nascita - ndr) scànsalo, che c’è l’erba che ti punge lu culu”...».

Nicola Arigliano - morto l’altra notte, a ottantasei anni - era così: amabile, gradevole, ma innanzitutto ironico e autoironico. Ai primi di ottobre del 2004 era già un arzillo ottantunenne arrivato a Trieste per partecipare a un’edizione del Barcolana Festival dedicata al jazz. E prima di salire sul palco, passeggiando sulle nostre Rive, il grande crooner pugliese ci raccontava aneddoti e ricordi di una vita e una carriera meravigliose.

Poi, per un pubblico ”selezionato” ma attento, affiancato dal suo trio e con l’immancabile cappelluccio calato sugli occhi, quella notte propose una serie di cavalli di battaglia dello swing italiano: da ”Marilù” a ”Permettete signorina”, da ”Il pinguino innamorato” a ”Venti chilometri al giorno” (Sanremo del ’64), da ”Adagio Biagio” a ”Ludovico”, passando per un omaggio al grande Louis Armstrong e, nel finale, una toccante ”Arrivederci” di Umberto Bindi.

«Sono nato a Squinzano - ci disse quella sera -, un paese in provincia di Lecce, il 6 dicembre 1923. La mia è una storia declinata a suon di jazz, anzi, ”di swing”. Ma lo so che se non ci fosse stata la pubblicità, quella dei vecchi Caroselli, la mia storia sarebbe stata diversa».

«Ho fatto per ventisette anni, alla radio e alla tivù, la pubblicità del Digestivo Antonetto, quello che ”si poteva prendere anche in tram”, e posso dire che è stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita. Prima suonavo, lavoravo, guadagnavo, ma poi, dopo quella pubblicità, che feci perchè ero amico di Armando Testa, grande pubblicitario, d’un tratto tutti mi conoscevano, tutti mi volevano, e anche economicamente le cose migliorarono: con il jazz nessuno aveva mai guadagnato tanto...».

In Puglia, da bambino, nessuno l’avrebbe mai immaginato. «In casa eravamo quattro fratelli, alla musica mi sono avvicinato subito, grazie a mia madre che cantava e suonava la chitarra. Presi anche lezioni di armonia e composizione, ma al paese mi annoiavo. A quattordici anni partii per Milano, attratto dai racconti che facevano alcuni giovani del paese che erano emigrati e tornavano giù d’estate. Continuai a studiare composizione, cominciando anche a suonare il sax, la batteria, il contrabbasso...».

«Al canto arrivai anni dopo, incoraggiato da altri colleghi con cui collaboravo: Renato Sellani, Franco Cerri, Gianni Basso, Oscar Valdambrini... Con Cerri condivisi l’esperienza nella pubblicità: lui era l’uomo in ammollo, ma un po’ si vergognava, mentre io mi sono sempre divertito e sono tuttora grato alla pubblicità».

«A Milano suonavamo alla Taverna Messicana: swing italiano e americano. Il mio mito era Benny Goodman. Poi feci cinque anni di militare, durante la guerra. Ricordo che finii la leva qui vicino, a Udine. E poi me ne andai finalmente in America. Avevo una ragazza a San Francisco, andai a trovarla, poi mi fermai a Boston, a New York, dove conobbi finalmente il vero ”iazz”...».

Nel '52, grazie al critico Marshall Brown che l'aveva sentito cantare in un locale, Arigliano aveva partecipato al festival jazz di Newport, allora il più importante del mondo. Nel ’56, dopo una quasi inevitabile trafila di canzoni napoletane, incise il suo primo disco importante: ”Simpatica”, firmato da Kramer, Garinei e Giovannini.

«Negli anni Sessanta, dopo una parte nel film di Monicelli ”La grande guerra”, partecipai ad alcune Canzonissime e anche a un Sanremo, nel ’64, con ”Venti chilometri al giorno”, scritta da un giovanissimo Mogol e da Pino Massara. Fu una stagione di successo: ”Permette signorina”, ”I sing ammore”, ”È solo questione di tempo”, ”Amorevole”. Per tutti ero ”il brutto che canta o’ iazz”, oppure ”il cantante che non canta”...».

«Poi, verso la fine del decennio del boom, mi sono allontanato dal mondo dello spettacolo. Ero un po’ stufo. Ho continuato a fare dischi, a tenere concerti, ma da una posizione più defilata. Fino a pochi anni fa: nel ’96 mi hanno dato il Premio Tenco, sono usciti degli articoli, la televisione si è di nuovo ricordata di me, e anche l’attenzione per i miei dischi e concerti è aumentata. Ed eccomi di nuovo qui...».

Riflessione finale, quasi filosofica: «Io sono un po’ misantropo, ho sempre voluto restare padrone assoluto della mia vita: se mi propongono delle cose che non mi piacciono, non le faccio e basta. Invece mi piace ancora, e tanto, cantare davanti alla gente: se non ho davanti un pubblico da intrattenere, per cui swingare, io non mi diverto...».

Fin qui Arigliano in quella serata ancora quasi estiva di un ottobre di alcuni anni fa. Pochi mesi dopo, nel febbraio 2005, si tolse l’ultimo sfizio di una carriera unica: tornare dopo tanti anni al Festival di Sanremo, in gara con il brano ”Colpevole”. Una partecipazione che gli valse un piccolo grande primato: diventare, a ottantuno anni compiuti, il più anziano cantante in gara nell’intera storia del Festival di Sanremo. I giornalisti della sala stampa gli assegnarono in quell’occasione il premio della critica e un'interminabile standing ovation, piena di tanto affetto.

Fu il canto del cigno. L’anno successivo andò a vivere nel centro per anziani di Calimera, provincia di Lecce, dove ha vissuto gli ultimi quattro anni della sua vita e dov’è morto l’altra notte.

Rimane la lezione di un uomo - e un artista - che ha fatto la storia del jazz di casa nostra. Arigliano, come ha detto qualcuno, ha trasformato in precetto di vita il celebre titolo di Duke Ellington, ”It don't mean a thing if ain't got that swing”, non vuol dire niente se non ha swing. Lo swing era la sua vita, la sua missione in terra.

Renzo Arbore ricorda così: «Per noi, ragazzi del jazz degli anni Cinquanta,Arigliano era un idolo non solo perchè cantava lo swing ma anche perchè lo faceva con molta ironia: era il re dello swing e dell'ironia.Tra le cose che lo rendevano originale c'era il fatto che in pieno successo aveva abbandonato Milano per vivere in collina con animali e prodotti della terra, aveva fatto una scelta bucolica. Era allo stesso tempo naif e innamorato della musica moderna».

Fiorello: «Mi dispiace tantissimo. Con Luttazzi ha dimostrato che lo swing lo sanno fare anche gli italiani. Ciao Nicola, I sing amore forever...».

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