martedì 2 aprile 2013

TIZIAN: la ndrangheta ha ucciso mio padre, non la speranza...

Quando aveva sette anni, nell’89, a Bovalino, in Calabria, la ’ndrangheta gli ha ammazzato il padre. Da giornalista ha scritto di mafie e malavita organizzata anche al Nord, dove la sua famiglia si era trasferita, a Modena, «nel tentativo di rimuovere, di dimenticare il passato, di trovare una normalità». Dopo gli articoli ha ricevuto minacce tali («gli spareremo in bocca...») da dover vivere da un anno e mezzo sotto scorta. Giovanni Tizian, giornalista trentaduenne dell’Espresso dopo anni di precariato in Emilia Romagna, racconta la sua storia nel libro “La nostra guerra non è mai finita”, edito da Mondadori. È la storia del nostro Paese che non riesce ad affrancarsi dal dominio della criminalità. Non soltanto al Sud. Tizian, a chi si rivolge il libro? «Si rivolge al Paese, agli italiani, alle vecchie e alle nuove generazioni. Non a caso la dedica è a mia sorella, adolescente, che davanti a sé ha un futuro incerto, che spetta proprio alle nuove generazioni rendere migliore. Magari senza mafie e corruzione. E a mia nonna, che ha tramandato i suoi ricordi, dolorosi e felici, al nipote perché li potesse un giorno raccontare. Tramandare di generazione in generazione è un valore umano che oggi si è un po’ perso, ma che rimane fondamentale. Da tramandare appunto». Quando ha capito di essere “in guerra”? «Come cittadino da quando ho preso coscienza del male procuratomi dalla ‘ndrangheta, da quando ho capito che il dolore provocato dall’uccisione di mio padre non era solo una questione individuale, ma un tassello di una storia più ampia: quella dei dimenticati, delle vittime della ‘ndrangheta, delle mafie. Come cittadino ho sentito la responsabilità di ricordare le loro storie, le nostre storie». E come giornalista? «Come giornalista non sono mai stato in guerra, la professione richiede il rispetto di regole precise e non possiamo permetterci di farci trascinare dalle emozioni. Ci tengo a precisarlo, perché sono due percorsi che porto avanti in parallelo. Certo, a volte si incrociano, quando per esempio mi capita di raccontare le storie delle vittime o degli imprenditori che resistono. Ma per il resto cerco sempre di tenere ben distinte il mestiere che faccio e l’impegno civile». Ci ricorda perchè la sua famiglia ha dovuto lasciare la Calabria? «Dopo l’incendio che distrusse la fabbrica di mio nonno, il mobilificio di famiglia che dava lavoro a venti persone, in un paese sulla costa jonica, Bovalino, di ottomila abitanti. E soprattutto dopo l’omicidio di mio padre, un caso rimasto irrisolto. Anzi, un omicidio “senza colpevoli”, nelle campagne della Locride, il 23 ottobre 1989. Due fatti che ci hanno allontanato dalla Calabria». Suo padre che persona era? «Ho pochi ricordi, quando lo hanno ucciso avevo solo sette anni. Gli investigatori lo definiscono persona integerrima, io lo ricordo pieno di vita, curioso, sempre pronto a farmi provare il brivido della novità. Dalla piccola barca a vela, dove ci stavamo io e lui e nessun’altro, ai giri dell’isolato con la sua moto Guzzi. Era la spalla di mio nonno e il suo avversario di scacchi. Quei pochi ricordi che ho sono di un papà. Niente più. Un papà normale che mi hanno negato per sempre». Al Nord quando ha incontrato per la prima volta la malavita organizzata? «Negli anni Duemila, durante l’università, leggevo molto. Poi me ne sono occupato da giornalista i primi anni in cui scrivevo per la Gazzetta di Modena. La mia prima inchiesta fu sugli incendi dolosi in provincia. Raccogliemmo un numero impressionante di fatti. Ma l’aria era cambiata da tempo, molto tempo prima che arrivassimo noi a Modena. Dove la malavita organizzata era presente sin dagli anni Settanta. Oggi è cambiata, è più ordinata e discreta, ma tiene comunque in mano pezzi di economia». Al giornale dove collaborava ha mai avuto problemi nel pubblicare i suoi articoli? «No, mai. Anzi, massima disponibilità e continui stimoli a proseguire». Le prime minacce? «Nel 2011, telefonate e telefonate in cui progettavano di bloccarmi. Fortunatamente gli investigatori stavano ascoltando». Da quanto tempo vive sotto scorta? Cosa le pesa di più di questa situazione? «Da un anno e mezzo. Più passa il tempo e più vorrei tornare libero di uscire solo e indipendente. Non è vero che ci si abitua, almeno per me non è così». In che cosa è diversa, se è diversa, la malavita al Nord e al Sud? «È diversa nell’approccio al territorio. Un esempio: al Nord evitano il più possibile di imporsi con la violenza, tentano in tutti i modi di comprare, di corrompere». Che ricordi ha di Bovalino? «Bovalino è il mio paese, lì ci sono le mie radici. Un luogo dove ho sofferto ma dove ho imparato a resistere. E come tutti gli amori lacera, le sue contraddizioni non riesco a condannarle, dobbiamo imparare a capirle, a spiegarle, per cambiarle. Ma vale per la Calabria, e vale per l’intero Paese». Qual è la sua speranza? «Che la politica e il prossimo governo metta al primo posto la lotta economica e culturale alle mafie e alla corruzione, due facce della stessa medaglia. Che ai giovani venga data l’opportunità di uscire dal ricatto della precarietà, che diventa strumento delle cosche e della mala politica per assoggettarli alle loro promesse». “La nostra guerra non è mai finita”, pubblicato da Mondadori nella collana “Strade blu”, la stessa di “Gomorra” di Roberto Saviano, è il secondo libro di Giovanni Tizian. Il primo, pubblicato nel 2011 da un piccolo editore, s’intitolava “Gotica. 'Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea”. «Se ho mai pensato di smettere di scrivere di 'ndrangheta? No - conclude il giornalista -, mi hanno già tolto la vita una volta, non permetterò a nessuno di togliermela un’altra volta...».

Nessun commento:

Posta un commento