venerdì 1 agosto 2008

PINO DANIELE 3


TRIESTE Notte napoletana, ieri in piazza Unità, per duemila spettatori paganti e tantissimi altri, assiepati sulle Rive e nei dintorni della grande piazza transennata. Tutti per Pino Daniele, che appare sul grande palco alle 21.37 e attacca con ”A testa in giù”, uno dei suoi tanti classici. È il brano del 1980 che stava nell’album «Nero a metà», titolo poi diventato, con «Mascalzone latino» e «Un uomo in blues» (altri suoi album, dell’89 e del ’91), fra i soprannomi del nostro. Che oggi, a cinquantatre anni, con i segni del tempo sul volto e fra i capelli, si è trasformato in una sorta di galantuomo mediterraneo, amante della musica e della sua terra, bella e sfortunata come tutto il nostro Sud.

La band di apertura vede schierati Gianluca Podio al piano, Alfredo Golino alla batteria, Matt Garrison al basso, Fabio Colasanti tastiere e computer, Juan Carlos Albelo al violino. Su «Quanno chiove» entra James Senese al sax, ed è la prima accelerazione della serata; dopo «A me me piace o blues» arrivano anche gli altri.

Gli altri sono i protagonisti di quel «neapolitan power» che negli anni Settanta spazzò via l’immagine oleografica, da cartolina, stile «mandolino pizza e ammore», che aveva contraddistinto la Napoli della canzone. Pino li ha rivoluti con sé per questo tour - e per l’album antologico che l’ha preceduto - e gli ex ragazzi non tradiscono, confermandosi musicisti geniali, capaci di spaziare dal blues latino al jazz, senza dimenticare le radici ben affondate nella musicalità partenopea.

Che ha i colori della batteria verace di Tullio De Piscopo, delle percussioni povere di Tony Esposito, del monumentale contrabbasso di Rino Zurzolo, dell’immenso pianoforte di Joe Amoruso. Tutti assieme mettono in scena il trionfo di una musica la cui vitalità si lascia alle spalle le rigide definizioni e mescola influenze arabe, africane, americane, in una festa di suoni e colori.

Pino si alterna fra una nera chitarra acustica e una bianca elettrica. E attacca con quella sua caratteristica voce sottile che un po’ contrasta con la corporatura importante. Dal cilindro escono altre perle: «Yes I know my way», «Ma che ho», «Je so pazzo», «Chi tene ’o mare» («chi tene ’o mare, ’o ssaje, nun tene niente...»), «Io vivo come te». E ancora «Tutta ’nata storia», «Anema e core», «Viento e terra», una struggente e appassionata «Quando» per pianoforte, percussioni e voce.

Piccoli grandi capolavori che i ragazzi degli anni Settanta, napoletani e non, impararono a conoscere e cantare in un’epoca magica e irripetibile in cui tutto sembrava possibile. E non lo era. In quell’epoca in cui volevamo cambiare il mondo e ci siamo limitati a cambiare la musica, forse il costume, liberandoci dai suoni che ci giravano attorno e sapevano di stanze chiuse, vecchie, dall’aria stantia, che avevano bisogno soltanto di qualcuno che spalancasse le finestre.

Pino Daniele è stato uno di questi. Ci ha liberato da una napoletanità retriva e corriva. Se vogliamo poi nel corso degli anni e dei decenni si è un po’ perso per le strade della vita e del mondo. Ha inseguito l’Africa e l’Oriente e a un certo punto persino i canti gregoriani. Per un periodo ha smesso di cantare in quell’anglonapoletano che è stato - ed è - il suo miglior marchio di fabbrica. Ma in fondo è rimasto l’ex scugnizzo nato in un sottoscala di Vico foglie a Santa Chiara, primo di sei figli, cresciuto da due zie per i problemi economici dei suoi genitori. Guaglione cresciuto per strada, in mezzo alla camorra e alla malavita organizzata, cui il grande amore per la musica ha letteralmente salvato la vita.

Ma torniamo alla serata triestina, che prosegue tra blues e echi gitani, tra danze calienti e melodie mediterranee, tra malinconia e ricordi evocati dalle varie canzoni: «Pigro», «Dubbi non ne ho», la superba «Mareluna», «Che male c’è»... In piazza il caldo è sopportabile, a tratti spira anche una brezza leggera, che sul palco probabilmente non si sente. E il rito laico del concerto va avanti, non perde un colpo.

Non perde un colpo il sax esplosivo di James Senese: era lui il primo, vero «nero a metà» napoletano, figlio di un soldato statunitense afroamericano e di una ragazza dei vicoli, leader negli anni Sessanta degli Showmen e nei Settanta di quei Napoli Centrale per i quali un giovanissimo Pino Daniele lavorava come facchino. Non perdono un colpo tutti gli altri.

Vien da pensare che in tempi di reunion a tutti i costi - dai Police ai Led Zeppelin a tutti gli altri, mossi spesso da motivi di portafoglio -, questa dei testimonial del «neapolitan power» sembra l’unica risposta italiana degna di esser seguita e ascoltata.

Per anni l’ex ragazzo dei vicoli era stato pregato dai fan - e probabilmente dai discografici e dagli impresari - di rimettere assieme quella non è esagerato chiamare «una gioiosa macchina da guerra». Lui ha resistito per tanto tempo (diceva: «La nostalgia è un nemico da combattere, ti fa mitizzare il primo amore...»), poi ha ceduto alla forza dell’evidenza e della bontà dell’iniziativa. Cambiare idea non è un peccato. Anzi.

E alla fine, quando Pino attacca «Napule è mille culure, Napule è mille paure, Napule è a voce de’ criature che saglie chiano chiano...» (primo dei due bis), nelle orecchie entra magia allo stato puro. Brividi per questi versi scritti nel ’77. Che proseguono così: «Napule è nu sole amaro, Napule è addore ’e mare, Napule è ’na carta sporca e nisciuno se ne importa...». Sono passati più di trent’anni, ma sono di un’attualità che fa male al cuore.

Allora tutti assieme cantano di nuovo «Yes I know my way» (secondo e purtroppo ultimo bis): la strada stasera la conosciamo tutti, è quella della grande musica, che parla al cuore e alla testa ma anche alle gambe. Difficile restar fermi. Il ritmo sale, cuore e termometro schizzano a mille, ma nessuno sembra aver voglia di arrendersi, di gettare la spugna, di alzare bandiera bianca.

E vedere quegli ex ragazzi sul palco triestino di piazza Unità, di nuovo tutti assieme, a cantare e suonare i classici di ieri e di oggi, è uno spettacolo che fa bene alla musica. Perchè le strade della nuova musica e canzone napoletana, dagli anni Settanta in poi, portano tutte a lui, al mascalzone latino</IP> chiamato Pino Daniele.

Che Trieste ieri sera ha salutato, fra cori da stadio, «Pi-no-Pi-no...!», con l’affetto che merita un grande protagonista della miglior musica italiana.

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