domenica 24 agosto 2008

RON


Difendere la canzone d’autore, salvaguardare la musica di qualità. Ron torna mercoledì a Trieste (piazzale dello Stadio Rocco, a Valmaura, inizio 21.30), con questo chiodo fisso che lo accompagna da tempo. Anche in questo tour estivo ormai giunto quasi alla conclusione. «Mi sono convinto - spiega Rosalino Cellamare, classe ’54, per tutti da tanti anni semplicemente Ron - che non c’è più rispetto per la musica. Guardi la televisione: tutto deve far parte del gioco. E la discografia, sempre più debole, va al traino. Ormai investe solo su personaggi che vengono fuori dall’ultimo ”X Factor” di turno...».

Non è che i cantautori storici perdono colpi...?

«Non credo. È che si è imposta una cultura della mancanza, del non sapere nemmeno che cosa succede anche nel mondo della musica. Siamo praticamente tagliati fuori dai maggiori network radiofonici. I nostri dischi non vengono trasmessi. E i media...».

Prosegua.

«Le faccio un esempio. Garlasco è il paese dove sono cresciuto e dove continuo a vivere. È da un anno, da quando c’è stato l’omicidio di quella povera ragazza, che tutti i giornali, dal Corriere in giù, mi chiedono un’intervista, una dichiarazione, un parere sull’argomento. Se avessi detto la mia, se mi fossi aggiunto al coro dei tuttologi, degli innocentisti e dei colpevolisti, avrei avuto la mia brava mezza pagina. Preferisco accontentarmi del trafiletto quando esce il mio disco nuovo».

Che fra l’altro sono due, a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro: paura di inflazionarsi?

«Assolutamente no, per i motivi appena detti. È un momento difficile per la discografia. Poi si tratta di due dischi molto diversi. Quello dal vivo con l’Orchestra Toscana Jazz è una raccolta di successi riarrangiati con una canzone nuova...».

«La canzone dell’acqua»...

"Sì, con testo di Renzo Zenobi e musica mia. Parlo dell’acqua come di un elemento di vitale importanza. L’acqua è un diritto per tutti, soprattutto per chi non ce l’ha. Sento molto questo problema».

L’altro disco?

«È il vero disco nuovo, con le canzoni che ho scritto negli ultimi tempi. S’intitola ”Quando sarò capace d’amare”, come la canzone di Giorgio Gaber, pubblicata ne “La mia generazione ha perso” del 2001, che ho inserito nell’album».

Ha sempre amato Gaber?

«L’ho visto per la prima volta in concerto al mio paese che avrò avuto dodici anni. Rimasi fulminato dalla sua grande forza interpretativa. Ma poi nel corso degli anni l’avevo un po’ perso. Per riscoprirlo recentemente, grazie a sua figlia Dalia».

Racconti.

«Nel 2004 sono stato invitato alla prima edizione del festival dedicato a Gaber, a Viareggio. Dalia mi fece leggere alcune cose di suo padre, io fui colpito da quel brano. L’ho sentito particolarmente mio e l’ho cantato da solo, al pianoforte, davanti a una platea di ”gaberiani doc”. E devo dire che fui accolto molto bene. Da lì nacque l’idea del disco».

Un disco, lei ha detto, sulla mancanza d’amore.

«Sì, penso sia questo il punto. Canto ”siamo ladri di carezze” e mi riferisco proprio al fatto di quanto oggi sia difficile avere un contatto vero, diretto, sincero. Questo vale per tutti i rapporti fra le persone. Ognuno sta sulle sue, alza muri, non c’è dialogo né disponibilità al confronto».

Lei ha vissuto quattro decenni da protagonista. Cosa ricorda del debutto?

«Alla fine degli anni Sessanta ero un ragazzino, c’erano questi concorsi di voci nuove, la discografia era affamata di nuovi talenti. Ricordo un giorno a scuola: il preside mi chiamò per dirmi che mia madre voleva farmi sapere che c’era un manager interessato a me per Sanremo...».

Dove lei debuttò nel ’70.

«Decennio per me strano. Inizio col botto, ”Pa’ diglielo a ma’” e ”Il gigante e la bambina”, successo immediato. Poi il buio. Nascevano i cantautori e io non scrivevo testi. Ero tagliato fuori. Venivo da Sanremo e dal Disco per l’estate, dunque per il pubblico la mia era musica commerciale. Bisognava scrivere solo sul sociale, io non ero d’accordo. Ricordo i fischi a un concerto per il Cile, nel ’73».

La svolta?

«Musicai una poesia di Neruda, ”I morti della piazza”. E poi partecipai al tour Banana Republic di Dalla e De Gregori, nel ’79. Cantavo ”I ragazzi italiani”, scritta a sei mani con loro due».

Intanto era diventato Ron...

«Sì, e non ero più un ragazzino. Dopo il tour Dalla e De Gregori mi dissero che dovevo camminare con le mia gambe. Lo feci. E arrivò il successo, con ”Una città per cantare”, cover di un successo di Jackson Browne. Era la mia storia, la storia di chi fa questo mestiere».

Siamo negli anni Ottanta.

«Quelli in cui divento autore di testi, ”Joe temerario” e tutte le altre. Fra cui ”Il mondo avrà una grande anima”, ispirata al ragazzo che era atterrato sulla Piazza Rossa a Mosca, portata senza successo a Sanremo ’88».

Per vincere dovrà attendere il ’96.

«Gli anni Novanta sono stati quelli del cambio di casa discografica, di ”Attenti al lupo”, della vittoria a Sanremo con ”Vorrei incontrarti fra cent’anni”, cantata in coppia con Tosca. Fu come la conclusione di un percorso, visto che tutto era cominciato da lì».

Siamo ai giorni nostri.

«Gli anni attuali, come dicevo all’inizio, sono quelli del crollo della canzone d’autore. Ma io non dispero, non mollo. Punto ancor più sui concerti, sul contatto diretto con le persone, che è sempre più importante».

Sa che il concerto triestino è inserito in un progetto sulla riqualificazione delle periferie?

«Non lo sapevo. Mi fa piacere. Penso sia importante vivere le città nella loro interezza, non soltanto i centri storici ma anche le periferie, che se non vengono vissute rischiano di essere abbandonate al degrado».

Cosa ricorda di Trieste?

«È una città dove torno sempre volentieri. Vi ho cantato anche pochi anni fa, sulle Rive, vicino al mare. Ricordo quella volta che mi misero a suonare su una zattera, ancorata davanti a piazza Unità (luglio 2000, a conclusione del Beach City Volley - ndr). Una sensazione davvero particolare».

Stavolta cosa canta?

«Le vecchie e le nuove, da ”Piazza grande” a ”Quando sarò capace di amare”. Ma non ci saranno solo canzoni: fra un brano e l’altro inserirò anche brevi monologhi, piccole cose segrete anche della mia vita privata. Più che un concerto è un recital».


 

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