«Per misteriose ragioni da quarant’anni costringo pubblico e artisti a confrontarsi con la mia incompetenza». C’è tutto Mario Luzzatto Fegiz, in questa sua frase autoironica che dice molto di colui che anni fa ha ricevuto il Premio Città di Sanremo come “giornalista decano del Festival” (il primo nel ’68, collaborava con la Rai, il prossimo sarà il numero 46...) e due mesi fa è stato premiato dai giornalisti triestini dell’Assostampa Fvg e del Gruppo giuliano cronisti con la Targa speciale del San Giusto d’oro.
Per il suo settantesimo compleanno che cade oggi (auguri...!), il giornalista e critico musicale triestino si è regalato un libro, “Troppe zeta nel cognome”, prefazione di Pippo Baudo, edito da Hoepli. Più di un’autobiografia. Uno spaccato che comincia nella Trieste degli anni Cinquanta, quasi nel clima che si respirava nell’indimenticato “Lettere da Zabodaski - Ricordi di un borghese mitteleuropeo”, del padre Pierpaolo, fondatore della Doxa e accademico dei Lincei; transita per la Roma degli anni Sessanta e approda a Milano, al Corriere della Sera, dai Settanta in poi. Nel libro tante curiosità, tanti aneddoti sul mondo e i protagonisti della musica.
Fegiz ha debuttato a “Per voi giovani”, programma radiofonico Rai di culto, con Paolo Giaccio e Carlo Massarini, poi ritrovato in tivù negli anni Ottanta a “Mister Fantasy”. Al Corrierone approda giovanissimo, assunto alle pagine culturali dal direttore Giovanni Spadolini. Tanta gavetta, poi il treno preso al volo della critica musicale, versante leggera pop e rock, che all’alba dei Settanta nei giornali praticamente non esisteva. Possiamo dire che se l’è inventata lui.
Poi, una carriera coi fiocchi, che ne ha fatto - grazie anche al suo essere voce radiofonica e volto televisivo - il critico musicale più noto del Paese. L’unico che qualche anno fa si è tolto anche il gusto e la soddisfazione di passare “dall’altra parte della barricata”. Ha infatti portato a teatro lo spettacolo “Io odio i talent show”. Sorta d’invettiva contro un mondo, quello dei “talent”, che gli aveva “portato via il lavoro”, diventato strada facendo un racconto del mondo della musica e della discografia, italiana e internazionale. Al Rossetti, nella Trieste che non ha dimenticato e che non lo ha dimenticato, ha fatto il tutto esaurito.
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