Anche all’ultimo “X Factor”, una concorrente (la diciannovenne Gaia Gozzi, seconda classificata) ha cantato in una puntata “Vedrai vedrai”. Non è la prima concorrente di un “talent” a cimentarsi con un classico di Luigi Tenco, non sarà l’ultima. Un segno anche questo, forse il più piccolo e insignificante, dell’eternità dell’opera del cantautore piemontese morto suicida nella notte fra il 26 e il 27 gennaio 1967, durante il 17.o Festival di Sanremo.
Sono passati cinquant’anni. Il mistero è sempre rimasto tale. Alla verità ufficiale del suicidio molti non hanno mai creduto. Gino Paoli, Lucio Dalla, Sandro Ciotti. Che avanzò a più riprese dubbi e interrogativi. “Quella notte” lui era nella stanza accanto, la numero 219, dell’Hotel Savoy. E non sentì il rumore di alcuno sparo. Poi quella lettera di addio: troppo assurda per essere stata scritta da Tenco.
Ricordate? «Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro), ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi».
Bah. Un altro argomento più volte sollevato. Tenco aveva una relazione con la cantante italofrancese Dalida, anche lei a Sanremo. Dopo il fatto, fu lasciata partire dal magistrato un’ora dopo il ritrovamento del cadavere, pur essendo una testimone fondamentale per le indagini. Che peraltro furono chiuse in maniera abbastanza frettolosa. Non furono fatte l’autopsia né la prova del guanto di paraffina. Suicidio e stop.
Ma chi era Luigi Tenco? Nato in provincia di Alessandria nel ’38, trasferito bambino con la famiglia a Genova. Maturità scientifica, iscritto a ingegneria, passionaccia per la musica, il jazz. A quindici anni suona il clarino, il sax. Con lui Bruno Lauzi, Gino Paoli, Fabrizio De Andrè. A vent’anni l’esordio come cantante, si fa chiamare Gigi Mai, incide un 45 giri come Dick Ventuno, poi adotta lo pseudonimo di Gordon Cliff. Frequenta Enzo Jannacci e Francesco Reverberi, scrive brani rock’n’roll, spensierati, quasi alla moda.
Ma è nel ’61, a ventitre anni, che viene fuori la sua vena più autentica. Comincia a scrivere canzoni malinconiche, spesso struggenti, a tratti beffarde. Le sue canzoni parlano d’amore in maniera nuova, disincantata. Hanno impianti musicali elaborati, spesso aboliscono il ritornello (all’epoca scelta obbligata nella musica leggera), proponendo piuttosto fino a tre temi musicali diversi nello stesso brano.
“Ragazzo mio”, “Io sì”, “Angela”. Poi “Mi sono innamorato di te”, “Lontano lontano”, “Vedrai vedrai”. E ancora “Un giorno dopo l’altro”, sigla televisiva dell’allora popolarissimo “Commissario Maigret”. Canzoni in anticipo sui tempi, dietro le quali s’intravedono una società che sta cambiando, rapporti interpersonali nuovi, l’amore fuor di retorica.
Siamo nell’Italia del boom economico, del primo benessere, della Cinquecento e del televisore. Ma anche dell’emigrazione, del permanere di forti sacche di povertà, soprattutto al Sud. In questo Paese le canzoni di Tenco stentano. Sono tempi in cui un 45 giri può vendere un milione di copie. Il suo massimo successo, “Lontano lontano”, all’epoca tocca appena le 35mila.
E arriviamo al ’67. A quel Sanremo il cantante non doveva partecipare. Aveva appena firmato un contratto con la Rca, casa discografica che sapeva attendere con pazienza la maturazione dei suoi artisti, e che infatti avrebbe tenuto a battesimo quasi tutti i nostri maggiori cantautori.
L’imprevisto fu probabilmente l’amore per Dalida. E quella canzone, “Ciao amore ciao”, che inizialmente s’intitolava “Li vidi tornare” e aveva contenuti antimilitaristi. Riveduta e corretta per andare con lei al Festival, magari a ottenere quel successo che finalmente gli era stato negato.
Ma quel brano, di una bellezza e una modernità che sopravvive agli anni, fu bocciato dalle giurie (38 voti su 900) e non venne ripescato dall’apposita commissione, che decise di salvare “La rivoluzione” di Gianni Pettenati. Ci furono delle polemiche, il giurato Lello Bersani si dimise per protesta, ma la decisione era presa.
Tornò in albergo, salì in camera, scrisse il famoso biglietto (che doveva restar segreto ma venne subito diffuso dall’Ansa), si sparò un colpo alla tempia. Seguirono pianti, accuse, interrogazioni parlamentari. Il Festival ovviamente andò avanti, il presentatore Mike Bongiorno liquidò la cosa con poche parole di circostanza («Diamo inizio alle seconda serata con una nota di mestizia per il triste evento che ha colpito un valoroso rappresentante del mondo della canzone...»), vinsero Claudio Villa e Iva Zanicchi con “Non pensare a me”. Quasi una beffa macabra. Completata dal titolo del brano cantato da Lucio Dalla e Rokes: “Bisogna saper perdere”.
Nel 2006, proprio per i tanti dubbi sulla vicenda, il cadavere fu riesumato. Ma le analisi non portarono a nulla. Luigi Tenco è sepolto nel cimitero di Ricaldone, provincia di Alessandria. Oggi avrebbe 79 anni.
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