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domenica 5 febbraio 2017
BOBBY SOLO, QUEL DEBUTTO SENZA VOCE
«Sono arrivato a Sanremo che non avevo nemmeno compiuto diciannove anni. Sapevo di avere una canzone forte. Ma dire che ero emozionato è dir poco. Mi trovai al fianco di miei idoli come Paul Anka e Gene Pitney, io stesso cantavo in coppia con Frankie Laine. Insomma, come fu e come non fu, venni preso dal panico e la sera della mia esibizione rimasi completamente senza voce...».
Bobby Solo, nato a Roma il 18 marzo 1945 ma con genitori e nonni triestini o istriani, alla vigilia del 67.o Festival di Sanremo (da martedì 7 a sabato 11 febbraio, diretta su Raiuno), ricorda quel suo indimenticabile esordio nella città dei fiori nel ’64, con “Una lacrima sul viso”.
«Quella del playback - prosegue colui che all’anagrafe è Roberto Satti e che da una decina d’anni vive nella nostra regione, ad Aviano, a due passi da Pordenone - fu dunque una scelta obbligata. Altrimenti avrei dovuto dare forfait. Dissero che fu un espediente per avere un audio perfetto, ma non fu così. Però il regolamento prevedeva l’obbligo di cantare dal vivo. Per questo non vinsi. Quell’anno salì sul gradino più alto un’altra giovanissima, Gigliola Cinquetti, con “Non ho l’età”...».
Ma le andò molto bene lo stesso.
«Assolutamente sì. Pensi che nel solo giorno dopo l’esibizione la mia casa discografica, la Ricordi, ricevette ordini per trecentomila copie di 45 giri. Vabbè che erano tempi in cui i dischi si vendevano a milionate, ma erano comunque grandi numeri. Anche perchè alla fine “Una lacrima sul viso” vendette due milioni di copie in Italia e undici milioni in tutto il mondo: dalla Francia alla Germania, dalla Spagna al Canada, dal Sud America al Giappone...».
E comunque, a Sanremo, lei venne “risarcito” l’anno successivo.
«Sì, nel ’65 vinsi con “Se piangi se ridi”. Molti dissero che si trattava appunto di una ricompensa per la mancata vittoria dell’anno precedente: una pratica che, fra l’altro, al Festival è stata adottata varie volte nel corso delle tante edizioni. Ma io trovo che quella canzone fosse comunque bella. E la amo lo stesso».
Poi lei vinse anche nel ’69.
«Con “Zingara”, in coppia con Iva Zanicchi. Se nelle mie prime due partecipazioni ero arrivato da “absolute beginner”, debuttante privo di esperienza ma con un grande amore per la musica e per il rock’n’roll, quella volta scesi in gara con maggiore consapevolezza, con un pubblico che mi seguiva».
Come scoprì il rock’n’roll?
«Grazie a una ragazza americana. Vivevo a Roma, avevo quattordici anni e mi ero innamorato della figlia di un giornalista del Daily American. Una biondina che mi aveva fatto perdere la testa e mi parlava sempre di questo Elvis Presley, per me all’epoca un illustre sconosciuto. Era il ’59, per conoscere quello che di lì a poco sarebbe diventato il mio idolo, e avere argomenti di discussione con la mia bella, cercai in giro qualche suo disco e andai a vedere il film “Il delinquente del rock’n’roll” (nella versione originale “Jailhouse rock” - ndr). Non sapevo che Elvis mi avrebbe cambiato la vita».
Racconti.
«Posso dire che, dopo aver ascoltato e visto Presley, rimasi folgorato. Divenni un suo autentico fan. Cominciai a copiarne le movenze, mi feci crescere il ciuffo, mi dedicai alla studio di quella chitarra che mi ero fatto regalare da mia mamma per il mio compleanno. D’estate venivamo in vacanza a Trieste, ne approfittai per prendere delle lezioni dal maestro Ferrara, che mi sembra lavorasse alla Rai. E a Roma misi su un complessino rock».
Trieste?
«I miei genitori erano triestini. Papà faceva il pilota di quella che sarebbe diventata l’Alitalia, per questo la famiglia si trasferì prima a Roma e poi a Milano. Ma d’estate tornavamo a trovare i nonni. Ricordo i miei pomeriggi al mare, a Barcola, Grignano, Sistiana. Ricordo perfettamente anche l’odore di cuoio che si avvertiva a casa della nonna, nata a Pola e sepolta a Castelvenere, l’attuale Kastel. La guerra era finita da poco, ognuno si arrangiava come poteva, e lei, nella casa di via Raffineria, vendeva anche scarpe. Era una specie di abitazione-negozio...».
Come arrivò a Sanremo?
«Nei primi anni Sessanta la mia famiglia si era trasferita a Milano. Conobbi Franz Di Cioccio, poi grande batterista della Premiata Forneria Marconi. Cominciammo a suonare assieme e a sostenere provini e audizioni alla Rai, dove venni bocciato, e nelle varie case discografiche. Alla Ricordi mi fecero un contratto. Era il ’63. Pochi mesi dopo ero al Festival...».
Che mondo scoprì?
«Quello dello spettacolo era un mondo che mi aveva sempre attratto. Ma ero senza esperienza, avevo fatto pochissima gavetta, e inoltre ero timidissimo. Quando salivo sul palco mi tremavano le mai, ero terrorizzato. Fuori dal palco non riuscivo a comunicare, spesso balbettavo».
Chi la aiutò?
«Due persone. Vincenzo Micocci, discografico lungimirante, praticamente il mio scopritore. E Mariano Rapetti, il padre di Giulio, il celebre Mogol, che mi spinse a collaborare con il figlio. “Una lacrima sul viso” infatti la scrivemmo assieme, lui il testo e io la musica, anche se non potei firmarla perchè non ero ancora iscritto alla Siae. Micocci e Rapetti senior furono i miei padri musicali».
Ora lei vive ad Aviano.
«Sì, mia moglie è figlia di un militare americano pensionato, che lavorava alla base di Aviano. Una decina d’anni fa lei ha voluto avvicinarsi ai genitori anziani che sono rimasti a vivere qui e ci siamo trasferiti. Stiamo bene, sono contento. Viviamo nel verde, da casa si vedono le montagne. E comunque, se ho con me le mie diciotto chitarre, più quattro bassi, io sono a casa dappertutto...».
Roma le manca?
«No, troppo caotica, troppo traffico. E comunque, se devo andarci per lavoro, l’aeroporto di Venezia non è lontano da casa mia».
A Trieste torna?
«Qualche volta. Sempre splendida. Fine, elegante, romantica. E molto migliorata».
Prossimo disco?
«Un tributo a Elvis, con le sue canzoni dai film, che sto incidendo a Udine».
Chi vince Sanremo?
«Spero Al Bano, che è mio coetaneo. Ma il Festival non mi appassiona più. È solo un grande spettacolo televisivo».
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